Non tutto è come appare: un partito populista di destra che scippa consensi ad Angela Merkel, entra in Parlamento e macchia, chissà per quanto, la serietà della democrazia tedesca. Questa, semmai, è la versione di chi, in Germania o altrove (Francia e Italia comprese) sta sulla tolda di comando. Perché, a ben vedere, Cdu e Spd hanno commesso lo stesso errore. Che non riguarda né i migranti né l’analisi al microscopio di quanto nazismo o di quanta xenofobia siano contenuti nel dna di Alternativa per la Germania (AfD). Ne abbiamo parlato con l’economista Vladimiro Giacché.



Come commenta l’esito di queste elezioni tedesche?

I due principali partiti che avevano fino a pochi anni fa l’80 per cento dei voti oggi superano a malapena il 50 per cento. Vuol dire che si è rotto il duopolio Cdu/Spd e questo è un fatto dirompente per la Germania. Tuttavia è una “novità” che non mi ha per nulla sorpreso.



E qual è il fenomeno nuovo?

La sfiducia di una parte dell’elettorato, che sfiora la maggioranza, nei confronti dei partiti che hanno governato negli ultimi anni. La Spd di Schulz ha subìto il suo peggior risultato nella storia della Germania ovest. Idem per la Cdu della Merkel: un risultato che non si vedeva dal ’49.

E dove sta il punto?

Il mainstream politico tedesco, Cdu e Spd, che hanno governato assieme in questi anni, è uscito seccamente sconfitto da queste urne. Il fatto saliente è che tutto questo è avvenuto nel paese che sta un po’ meglio degli altri in Europa. 



Un po’ meglio, lei dice?

Lo sviluppo della Germania è invidiabile se paragonato a come stanno gli altri, a cominciare dall’Italia. Ciò che molti osservatori dimenticano — o nascondono — è però la crescita della povertà e della disuguaglianza sociale.

Ed è così che lei legge il successo di AfD?

In parte sì. L’altro elemento da considerare è radicato nella storia del paese e mette in discussione una componente importante della narrazione sulla storia tedesca recente, quella dell’unificazione come capolavoro non soltanto politico, ma economico.

La verità?

Chi conosce i dati economici sa che oggi, nel 2017, un abitante dei cinque Länder dell’ex Ddr ha il doppio di probabilità di essere disoccupato rispetto a un suo concittadino dell’ovest, e se lavora prende almeno il 25 per cento in meno di stipendio. La parte orientale del paese è stata oggetto di una vera e propria annessione economica avvenuta tramite il cambio 1 a 1 tra marco dell’ovest e marco dell’est e una deindustrializzazione che non ha riscontri nella storia del continente europeo in tempi di pace.

Alla quale Berlino ha supplito con corposi trasferimenti. Se spoglio il mio vicino delle sue capacità produttive ma voglio continuare a vendergli beni di consumo, devo finanziargli i consumi.

Esattamente. Il problema è che quando si arriva a determinati livelli di deindustrializzazione non si è più in grado — o è molto difficile — dar luogo ad una crescita autosostenuta. E si dipende da altri.

Semplificando?

Si è distrutto quello che c’era perché faceva comodo alle imprese dell’ovest occupare quello spazio di mercato. Poi non c’è stata alcuna ricostruzione. Quando si chiudono le imprese non vengono meno solo gli impianti, ma si disperde anche il capitale umano. Quello dell’ex Ddr è largamente emigrato all’ovest, ma nonostante questo il tasso di disoccupazione all’est è tuttora il doppio che nel resto della Germania. 

E in questo contesto sociale l’immigrazione ha detonato come una bomba.

Sì, ma attenzione: AfD ha avuto più voti dove l’immigrazione è più bassa. AfD ora è entrata trionfalmente nel Bundestag, ma vi era andata molto vicina nel 2013. All’epoca l’emergenza immigrati non c’era. Il primo fattore del successo di AfD è la generale sensazione di essere abbandonati dalla politica che si respira in determinati Länder.

Un malcontento che è molto facile inscatolare nel concetto di populismo.

Una parola contenitore, dove ognuno mette sbrigativamente ciò che gli pare, soprattutto coloro che gli stanno antipatici. Ma che cos’è il populismo? La definizione che usa l’establishment per squalificare le opposizioni a se stesso. Occorrerebbe ragionare in termini più politici.

Quali?

Quelli dei bisogni che oggi non sono soddisfatti dall’attuale assetto europeo. Poiché la politica non conosce vuoto, se c’è uno spazio che non è coperto dai partiti tradizionali, a occuparlo ci pensa qualcun altro. Lo si è visto con Syriza, con M5s, con Podemos e adesso con AfD. Fenomeni analoghi si sono visti in Olanda e in Austria. Comunque il dato saliente, ripeto, è lo scardinamento delle famiglie politiche tradizionali. Il quadro è saltato e continuerà a saltare nei prossimi anni.

Intanto la Merkel dovrà fare un governo. In che modo questo cambierà la partita delle regole che si stanno riscrivendo nell’Ue? 

La Germania rimane al centro della partita ma Angela Merkel è sicuramente più debole.

A vantaggio della linea rigorista?

Intendo indebolita in Europa. Da domenica la Germania non ha più il vessillo dell’immutabilità politica e dunque della stabilità. Se n’è accorto subito il Financial Times, il quale ha scritto che la Germania non è più un’eccezione, dal punto di vista dell’impermeabilità ai movimenti “populisti”. E’ vero. Sarà un po’ più europea, cioè simile a quanto avvenuto negli altri paesi europei. 

E quanto ai trattati?

Le condizioni cambieranno, ma in peggio. Anche se i margini di peggioramento non sono poi così ampi, visto quanto sta accadendo… Non a caso qualcuno nei liberali dell’Fdp ha dichiarato che sarebbe meglio se la Grecia uscisse dall’Ue perché è una zavorra.

L’Italia no, devono prima spolparla.

Sull’Italia c’è più cautela, prima delle elezioni politiche in Italia forse il guinzaglio dell’austerity sarà allentato, ma si sta tentando di penalizzare il possesso di titoli di Stato da parte delle banche italiane, cosa che peggiorerebbe ulteriormente i rapporti di forza tra il nostro paese e gli Stati-“guida” dell’Ue. Fossi in Gentiloni starei attento alla fase che si apre, perché l’asse franco-tedesco non vuol dire più Europa, ma più Francia e più Germania a scapito del resto dell’Unione. A cominciare dal terzo paese più importante dell’Ue. 

C’è qualcosa secondo lei che accomuna Schulz e Merkel?

Sì: non avere spiegato ai loro concittadini che l’attuale assetto europeo favorisce in primis la Germania, e in particolare le grandi imprese e le grandi banche tedesche. Si è preferito far passare l’idea dell’onesto lavoratore tedesco che paga per il resto d’Europa e soprattutto per le “cicale del sud”. La verità è un po’ diversa.

Ce la dica.

Quei fannulloni di italiani sono entrati nell’Esm versando decine di miliardi di euro e consentendo alle banche tedesche e francesi di uscire senza troppi danni dalla crisi greca. Lo stesso Quantitative easing viene presentato in Germania come un generosissimo regalo all’Italia che altrimenti non starebbe in piedi. La verità è che grazie al Qe, dato che gli acquisti sono proporzionati alla partecipazione di ogni stato nella Bce, i titoli di stato più acquistati dalla banca centrale sono quelli tedeschi e questo ha consentito alla Germania di emettere titoli con rendimento addirittura negativo. 

Il segreto della diminuzione del debito tedesco negli ultimi anni. 

Sì. Ma la cosa più importante è un’altra: Sull’Handelsblatt l’altro ieri è comparso un titolo allarmistico, che richiamava testualmente, tra le altre cose, la “resa dei conti”.

Quale resa dei conti?

Il terreno politico è divenuto accidentato, AfD è un problema, per l’immagine nel mondo non va bene: “per la nazione esportatrice Germania è un segnale devastante”. Capito? L’export è la priorità assoluta e la misura del successo del Paese. Vuol dire non avere imparato nulla, perché se questi signori hanno preso il 12,6 per cento dei voti è proprio perché la Germania ha scelto di essere soltanto un paese esportatore. Non puntando sulla domanda interna e non facendo investimenti infrastrutturali negli ultimi anni. Un errore che anche economisti tedeschi moderati vicini sia alla Spd che alla Cdu ormai riconoscono apertamente.

Con quali conseguenze?

Scegliendo di basare l’intera economia sull’export, e a questo fine precarizzando il lavoro e abbassando i salari reali nei settori esposti alle esportazioni nei primi 10 anni di moneta unica, la Germania si è ritrovata un problema sociale enorme. Oggi la Germania ha un enorme attivo della bilancia commerciale di 252,4 miliardi di euro (dato 2016, ndr), ma anche 12 milioni di poveri (ai massimi dall’unificazione). E ora ci si lamenta che AfD può creare un problema alle esportazioni?

Dunque la prima vittima delle politiche mercantiliste di Berlino sono stati i lavoratori tedeschi.

Sì, ma ovviamente non solo loro. Se uniamo il regime di cambi fissi dell’euro alle scelte di politica economica di cui sopra, otteniamo il surplus commerciale tedesco nei confronti degli altri Paesi dell’eurozona, una cifra che in percentuale del Pil non è neppure lontanamente compatibile con il Patto di stabilità e crescita. E nessuno dice nulla. Anzi la domanda è stata rivolta a Moscovici, che ha risposto: per noi non è un problema. 

(Federico Ferraù)