Questa volta la notizia è una ripetizione fortemente voluta che, in questa circostanza, neppure la stampa del pensiero unico riesce a nascondere. All’ex corazzata di via Solferino, a un nostromo dell’attuale rimorchiatore d’altura per come è ridotto il giornale, Massimo D’Alema dice, mentre si discute animatamente dell’unità delle sinistre alle prossime elezioni politiche: “Mai alleati con il Pd”.
Ma soprattutto, il “vecchio ragazzo” di Enrico Berlinguer, ribadisce, quasi con dispetto e per metterlo in rilievo, un concetto sanguinoso per alcuni geni incompresi della Procura di Milano e per la mitica “gente” del 1992, che coniugavano, a scopo di redenzione nazionale, anticraxismo, azione della magistratura e questione morale della sinistra nella rivoluzione cosiddetta di velluto.
D’Alema risponde, alla domanda del nostromo “Rivede qualcosa di Craxi in Renzi?”, quasi scandendo le parole: “No. A parte la palese differenza di statura politica, Craxi nonostante la forte carica anticomunista è sempre stato un uomo di sinistra. Fu vicino alla causa dei palestinesi, aiutò gli esuli cileni. Renzi alla sinistra è completamente estraneo… Non c’entra proprio nulla”.
D’Alema non fa riferimenti solo internazionali, forse per non sconvolgere l’approssimativa geografia politica di Luigi Di Maio.
Ma, a parte questo, è impressionante che ieri mattina,in televisione, Claudio Velardi, che fu consulente di D’Alema quando era a Palazzo Chigi e poi ha conosciuto anche una stagione renziana, abbia ripetuto convinto: “D’Alema ha ragione. Craxi era veramente di sinistra, mentre Renzi non lo è. Io aggiungo per fortuna, perché siamo nel terzo millennio”.
Velardi è diventato un liberale probabilmente, non riesce più a individuare uno spazio di sinistra, ma è un uomo onesto e intelligente di cui si rispettano idee e lavoro di ricerca.
Ma c’è un problema a questo punto che si pone, che tutti si pongono in questa confusa situazione politica italiana e anche europea. Anche se non trionfa la nostalgia, appare sullo sfondo un briciolo di autocritica.
A noi, in particolare, sembra che ci sia una sorta di un romanzo da scrivere, “Alla ricerca della sinistra perduta”, dopo che anche in Germania Martin Schulz, il leader socialista, ha portato il suo partito a una sconfitta storica. La Spd è stato il partito di Willy Brandt e di Helmut Schimdt, anche loro anticomunisti ma fieri uomini di sinistra.
Schulz ora ripensa criticamente all’alleanza con Angela Merkel, la signora che pugnalò alle spalle Helmut Kohl. Schulz si è dimenticato persino delle critiche di Schimdt alla Merkel, quando, ormai vecchio, rievocò addirittura un discorso di Thomas Mann del 1954 sulla distinzione tra Europa tedesca e Germania europea, per richiamare la Merkel a una visione più europeistica.
La verità è che, nonostante le auto-consolazioni sul nuovo successo della Merkel anche da parte di alcuni nostri “valletti”, il grande mutamento globalista e liberista non convince larghi strati di europei. Addirittura grottesco, qualche giorni fa, ascoltare Tobias Piller, giornalista tedesco sempre critico con l’Italia, citare John Maynard Keynes sui debiti di guerra della Germania. Una comica.
Di fatto la grosse Koalition ha preso una “grande sberla” e Merkel e Schulz sono riusciti nell’impresa di resuscitare l’estrema destra tedesca per diversi motivi, non tanto per quelli legati all’immigrazione, come si dice con superficialità. Nella sostanza però, chi esce con le ossa rotte è sempre la sinistra.
A ben guardare, dopo questo risultato, la caduta della sinistra europea nel suo complesso è ormai clamorosa ed endemica. E’ un autentico romanzo. Ritornando all’Italia, alle puntualizzazioni di D’Alema e alle confessioni di Velardi., il nocciolo di “Alla ricerca della sinistra perduta” potrebbe diventare un best-seller se esistesse in Italia un Marcel Proust.
Ma da noi c’è stato solo un grande autore di romanzo storico, Alessandro Manzoni; gli altri hanno preferito, nella maggior parte, seguire l’immaginifico e il metaforico. Morale, la verità non esce dagli studi storici e neppure si intuisce dai romanzi.
Con un aspetto, dalle cause agli effetti, che diventerà più drammatico e più grave in Italia. Nelle socialdemocrazie europee si è passati, anche in questo caso malamente, dagli insegnamenti di Karl Kautsky, di Eduard Bernstein, di Rudolf Hilferding, oppure dei socialisti utopisti francesi, da Proudhon a Blanqui, o dei laburisti inglesi, alla resa al liberismo e all’ordocapitalismo, dimenticando i grandi insegnamenti sull’analisi del capitalismo di Keynes e di uomini come William Beveridge. Ma nessuno abiurava il sistema democratico e anche la libertà economica.
In Italia, il salto è stato più radicale e traumatico. Dimenticando personaggi come Filippo Turati e Anna Kuliscioff, Claudio Treves, Leonida Bissolati e tanti altri che scrivevano sulla Critica Sociale, nel dopoguerra si è ridotto tutto a una contrapposizione manichea: da un lato il comunismo, che aveva sempre un occhio all’Urss, dall’altro il capitalismo americano. Dimenticando pure il keynesismo, che caratterizzò il miracolo economico italiano.
Tutte le esperienze riformiste venivano demonizzate o inglobate malamente dai comunisti, che l’erede dei riformisti, il pupillo di Pietro Nenni, Bettino Craxi, definiva in questo modo: “Il Pci non è un partito di sinistra, ma è un partito che sta a Est”.
Si era al punto più alto della polemica tra socialisti e comunisti italiani; non sempre i rapporti tra Psi riformista e Pci furono così duri. Ma sostanzialmente, la furibonda gara a sinistra dopo il 1976 fu però sempre caratterizzata da un rimpianto leninista contro il riformismo. Al punto che quando un grande comunista come Giorgio Amendola spaccò in tre occasioni il Pci, venne bollato senza alcun rispetto quasi come un traditore.
Nel 1961, fu Togliatti a far fuori Amendola dall’organizzazione, perché critico con i sovietici, con la storia stalinista nascosta e troppo “krusceviano”. Poi nel 1964, il 17 ottobre, Amendola su Rinascita propose il superamento del leninismo e suggerì un nuovo nome per il Pci. Accadde il finimondo e Amendola diventò una sorta di appestato filosocialista. Contemporaneamente, sempre Amendola sostituì la parola “pianificazione” con “programmazione economica democratica”, trovandosi in accordo con banchieri come Mattioli, uomini politici come La Malfa e il nipote di Giolitti, diventato socialista. Infine nel 1979, in un drammatico Comitato centrale, Amendola attaccò il settarismo del Pci e si beccò da Berlinguer questa risposta: “il compagno Amendola non conosce l’abc del marxismo”, mentre nel Pci si parlava apertamente di una “questione Amendola”.
Ma ecco che quando cade il Muro di Berlino e il comunismo implode, nel giro di pochi anni, attraverso “partiti di carta”, ripensamenti grotteschi e unioni di fantasia, si passa dal leninismo a… Milton Friedman e von Hayek, dalle banche popolari al “festival dei derivati”. Com’era possibile non immaginare che questo nuovo partito diventasse una “macchina non più governabile”, che stava andata incontro a un testacoda micidiale?
“Alla ricerca della sinistra perduta” dovrebbe analizzare questi passaggi, oltre a quelli di storia patria, dalla famosa “svolta di Salerno”, imposta da Stalin, fino alla guerra partigiana, che fu nobile e che fu fatta da tanti, anche da tantissimi uomini del Pci ma non solo. Quella nobile guerra di Resistenza ci riscattò, ma non portò alla vittoria dell’Italia, che subì un trattato di pace durissimo, che nelle scuole non insegnano e neppure leggono. Speriamo che ci sia qualcuno che non si inventi che lo sbarco in Normandia, il famoso D-day, sia partito da Ravenna.
Come si fa a ricostruire una storia credibile e precisa, senza strombazzate come quelle della Resistenza tradita? Bisognerebbe superare ogni ipocrisia, che neppure i protagonisti dell’ultimo libro della Recherche di Proust Il tempo ritrovato, i Guermantes e le madame Verdurin, avevano.
Forse superando questa ipocrisia, in Italia, si potrebbe ricostruire una sinistra moderna, di cui si sente sempre la necessità e l’indispensabilità, se ci è permesso dire.
Forse proprio un romanzo del genere ci libererebbe da questa continua tela tessuta, sinora invano, da Penelope-Pisapia, che non sarà mai finita finché tornerà Ulisse. In questo caso rappresenterebbe lo smascheramento di tante menzogne storiche.