L’ufficializzazione della candidatura Attilio Fontana al vertice Regione Lombardia non chiude il “caso Maroni”: semmai certifica una distruzione netta di valore politico per il centrodestra, la cui dimensione potrà essere opinabile, ma la cui esistenza è poco discutibile, così come la sua evitabilità. E l’intervista del presidente odierna della Regione Lombardia al Foglio non fa che aggiungere un capitolo a una catena di errori difficilmente spiegabili con le categorie della razionalità.



Ancora quarantott’ore dopo l’annuncio a sorpresa del ritiro del presidente in carica non era scorretto affermare: “Di sicuro si sa solo che si è ritirato”, secondo l’inizio di un celebre reportage sulla morte del bandito Salvatore Giuliano. Maroni ha accreditato la versione ufficiosa di una sua pausa di riflessione personale, lasciando perfino aleggiare l’abbandono della vita politica (naturalmente non era vero, ma non si stava parlando della probabile formazione del suo Milan). Se l’immagine di Matteo Renzi continua a soffrire per aver tradito la promessa di lasciare in caso di sconfitta al referendum 2016, Maroni ha commesso un primo errore – per sé, per la Lega, per il centrodestra – nel lasciare avvolto in una misteriosa incertezza il suo passo: che, anzitutto, non era chiaro se fosse stato deciso in autonomia o suggerito/imposto da altri (non è chiaro neppure oggi).



Rischi di crisi giudiziarie durante la campagna elettorale? O timori più squisitamente politici, ad esempio la scarsa compattezza del centrodestra anche dopo una prevedibile vittoria elettorale? Tutti i dubbi restano. Il gesto di Maroni ha in ogni caso messo in discussione – almeno mediaticamente – un’affermazione data per acquisita, pur al termine di un quinquennio grigio, privo di protagonismo per la regione più grande, più ricca, più produttiva e internazionalizzata del Paese. Di più, ha allungato ombre sulla solidità – fino ad oggi reale – della roccaforte lombarda per il centrodestra: ininterrotto baricentro nordista della Seconda Repubblica, dalla prima vittoria di Berlusconi nel 1994, all’esordio di Roberto Formigoni al Pirellone nel 1995 (a proposito: a Formigoni il Cavaliere ha sempre negato una “promozione” da Milano a Roma che sarebbe stata nell’ordine delle cose fin dalla conclusione del secondo mandato).



Certamente Maroni ha subito rovinato il selfie di lunedì sera fra Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, immediato oggetto di interrogativi sull’effettiva coesione della coalizione di centrodestra. E la gestione dell’improvvisa crisi non è stata meno affannata ed equivoca. La prima scena-boomerang è stata l’immediata candidatura “di scorta” dell’ex sindaco di Varese: di fatto il luogotenente di Maroni nel collegio di casa. La Prima Repubblica è defunta da un quarto di secolo: come può la presidenza della Regione Lombardia essere giocata come proprietà privata di un singolo partito, anzi di un singolo capo-corrente della Lega? In secondo luogo il nome di Fontana è stato formalizzato ieri da Berlusconi, non dal leader della Lega Nord, chiaramente irritato per gli sviluppi. Difficile capire quanto vi sia di tattico nelle mosse del Cavaliere (che si atteggia a leader del centrodestra ma non sarà candidato e rischia di non essere il primattore nei numeri post-voto) e quanto sia sincero il malumore di Salvini.

Nelle ultime ore, sicuramente, l’intera Lega si sta mostrando frammentata in modo inatteso. All’acredine aperta di Salvini verso l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi – rientrato nella “quarta forza” del centrodestra – si contrappone il “marciar da solo” di Luca Zaia. Il governatore del Veneto – che ha nettamente superato Maroni in occasione dell’ultimo referendum sull’autonomia – ha annunciato ieri che una pre-intesa fra Regione Veneto e governo sulla redistribuzione di poteri è quasi pronta e potrebbe essere definita prima del voto.

Non ha convinto, infine, nemmeno il tentativo di un commentatore come Stefano Folli di richiamare Maroni nella categoria delle “riserve della Repubblica”, appaiandolo a Emma Bonino. Premesso che l’unica vera “riserva della Repubblica” degna di questo nome è oggi il presidente della Bce Mario Draghi (il presidente del Senato Pietro Grasso vi ha rinunciato schierandosi per LeU), saremmo curiosi di registrare le reazioni dei commentatori “costituzionali” all’eventuale candidatura di Maroni come premier di una coalizione fra Lega e M5s: in primavera o in autunno, magari dopo nuove elezioni che alcuni prevedono e altri auspicano e promuovono. Nella permanente opacità alimentata anzitutto da Maroni sempre più probbaile il presidente auto-pensionato della Lombardia entri in una “piccola coalizione” fra Pd e centrodestra, staccandosi dalla Lega assieme ai settori governativi del partito salviniano. Ma se Maroni si sente simmetrico al sindaco di Milano Beppe Sala nel rappresentare politicamente l’establishment vasto della Lombardia policentrica attorno alla nuova Città Metropolitana (e per certi versi potrebbe farlo meglio di Stefano Parisi) sarebbe nel suo interesse dirlo. Neppure l’intervista-tampone, tuttavia, lo dice: è la semplice ricevuta di una petite victoire interna alla lega che si può trasformare in una grande sconfitta per il centrodestra.  Mentre era chiaro da tempo che dei lombardi  e della loro amministrazione regionale, al “leninista” Maroni interessa poco o nulla.