Non per caso Carlo De Benedetti ha rivelato di aver ricevuto — dopo 15 anni di rivalità all’ultimo sangue — una chiamata da Silvio Berlusconi: i media — giornali, tv e affini — non saranno mai prodotti uguali agli altri. Cosa sta accadendo dentro e attorno Repubblica?

L’intervista ad Eugenio Scalfari annunciata per oggi sul quotidiano da lui fondato nel 1976 aggiungerà certamente paragrafi interessanti — e probabilmente gustosi — a una telenovela che è tuttavia è più seria, più “storica” di quanto appaia. Quando l’altra sera a “Otto e mezzo” l’Ingegnere ha rinfacciato al Fondatore di averlo prima salvato e poi “riempito di miliardi” si è sbrigativamente riferito a due passaggi che sono nella storia italiana contemporanea: la nascita di Repubblica — fra Pci primo partito, Brigate rosse e P2 — e la “guerra di Segrate”, quindici anni dopo, quando Berlusconi spalleggiato da Bettino Craxi e Giulio Andreotti condusse un’offensiva strategica che fruttò a Fininvest il controllo di Mondadori ma solo un’occupazione temporanea del quotidiano diretto da Scalfari. Appena due anni dopo, in ogni caso, il Cavaliere divenne il primo, vero premier della seconda repubblica. Chi oggi ha venti o trent’anni lo apprende da “1992” o “1993”, le (belle) fiction di Sky: ma i più che 80enni De Benedetti e Berlusconi — assieme al 94enne Scalfari — duellano ancora in carne ed ossa nell’incerto 2018 italiano. Ed è su questo sfondo che va letta una vicenda che sei mesi fa nessuno avrebbe predetto, e di cui oggi nessuno può ragionevolmente predire l’esito.



Tutto è nato, in superficie, da una battuta (forse casuale, forse no) di Scalfari a un talk show: fra Di Maio e Berlusconi, anche il Fondatore di Repubblica oggi si rassegnerebbe al secondo. Ma tutto è nato — sotto la superficie, ma alla luce del sole — nei due anni precedenti: quando De Benedetti si è accordato con la famiglia Agnelli per la fusione fra Espresso-Repubblica e Stampa, facendola precedere dal passaggio del direttore Mario Calabresi da Torino a Roma. Due le premesse: una economico-industriale (le pressioni competitive di ogni genere sull’industria-media), una politica: l’apparente consolidamento di medio-lungo periodo del Pd renziano. Anche dopo la traumatica svolta del referendum 2016 e l’avvento di Urbano Cairo alla guida del super-concorrente Corriere della Sera, De Benedetti è parso voler percorrere la rotta delineata, con il proprio disimpegno personale dalla proprietà del nuovo gruppo Gedi (oggi formalmente in capo al figlio Rodolfo, attraverso Cir) e dalla titolarità editoriale, con il figlio Marco alla presidenza e Monica Mondardini, finora manager fidatissima, come amministratore delegato. Cosa ha fatto precipitare la situazione?



Una prima uscita pesante — un’intervista al Corriere della Sera a metà dicembre — ha segnalato due alert precisi da parte dell’Ingegnere: una sfiducia aperta per Matteo Renzi e il suo avvicinamento elettorale; e un’insofferenza politico-editoriale per la nuova Repubblica: inerziale nel suo appoggio “politicamente corretto” al leader Pd e non convincente, almeno ai primi riscontri, nel suo restyling. Fra Natale e Capodanno si è fragorosamente aggiunto il “caso Popolari”: la commissione parlamentare d’inchiesta ha acquisito i verbali delle indagini Consob sulle presunte compravendite anomale di titoli in Borsa a cavallo della riforma delle Popolari decisa dal governo Renzi a inizio 2015. I puntuali leak sulla stampa hanno rivelato le ammissioni di De Benedetti su contatti discutibili con il premier Renzi e con i vertici Bankitalia e nel polverone successivo Repubblica si è fatta notare per un decise prese di distanza dall’Ingegnere, tuttora azionista di maggioranza assoluta del quotidiano. Una dimensione supplementare in una vicenda già intricata: il conflitto d’interesse fra un editore e i suoi giornalisti, peraltro nello specifico italiano, a valle di 25 anni di opposizione bloody di Repubblica a Berlusconi. Senza dimenticare lo specifico globale: quello impersonato da Donald Trump — ritenuto omologo del Cavaliere — che proprio ieri ha velenosamente assegnato dalla Casa Bianca al New York Times l’alloro di peggior costruttore di fake news d’America. Cosa accadrà ora?



Il comitato di redazione di Repubblica ha fatto per ora scudo al direttore, in nome dell’autonomia della testata. E’ vero che i numeri gestionali sono ad ora non favorevoli al direttore e all’amministratore delegato: durante la sua reggenza il quotidiano ha perduto il 15 per cento di copie. Ed è altrettanto vero che il corpo redazionale — ormai senza quasi più legami con quello formato da Scalfari degli anni 70 e 80 — è ancora oggettivamente congruente con la leadership di Ezio Mauro, direttore per vent’anni dal 1996, primavera radiosa della prima vittoria di Romano Prodi. De Benedetti si dice impaziente dalla voglia di ridare “sangue” a Repubblica, ma è il primo a sapere quali insidie comporterebbe il far valere i suoi diritti di “padrone”: per di più pochi mesi dopo aver annunciato il suo ritiro, anche per ragioni di età. Tuttavia è stato proprio un coetaneo, l’arcinemico Berlusconi, a chiamarlo dal campo di battaglia (ed è lo stesso media mogul che sta negoziando con Vivendi-Telecom la nascita di un super-polo europeo). Ancora, è il suo primo concorrente — Cairo — ad offrirgli tribuna sul Corriere e su La7. Senza dimenticare che proprio ieri Massimo D’Alema — sul Corriere, non su Repubblica — ha scosso “la sinistra” (compresi molti giornalisti di Repubblica) con un appello di puro realismo togliattiano: alle larghe intese Renzi-Berlusconi l’alternativa c’è, è un governo Pd-M5s con la garanzia di LeU e senza preclusioni di principio alla permanenza di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi.

(PS: Steven Spielberg è venuto nei giorni scorsi a Milano a presentare “The Post”, glorificazione definitiva del mito del giornalismo liberal nato con la pubblicazione dei Pentagon Papers e l’inchiesta Watergate. Quarant’anni dopo sono in molti — anzitutto in America — a credere che quella interpretata da Tom Hanks e Meryl Streep nel 2018 fosse fiction anche negli anni 70: quando in Italia nacque Repubblica, anche sulla scia di quella narrazione. Il proprietario del Washington Post, del resto, oggi è Jeff Bezos, padrone di Amazon, non più la miliardaria aristocratica Kay Graham, regina dei salotti kennedyani della Washington d’antan. Poteri contro altri poteri: come negli anni 60 e 70 fra diritti civili e guerra del Vietnam; oppure poteri che si accordano con altri poteri: come Trump e i lord della Silicon Valley e di Wall Street, in questi giorni sulla riforma fiscale Usa)