Il primo dilemma davanti al quale Sergio Mattarella si troverà nella seconda metà di marzo sarà a chi affidare l’incarico di formare il governo. Anche se è facilmente prevedibile un discreto caos parlamentare, è probabile che un presidente così attento alle formalità istituzionali assegnerà un mandato a una personalità politica prima che a un uomo delle istituzioni, tipo il presidente di una delle Camere. E se, come pare, il centrodestra si confermerà la prima coalizione, sembra che il bivio per il Colle sarà scegliere tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. In realtà esiste una terza opzione, tutt’altro che trascurabile. Perché il primo partito, la prima forza politica autonoma, saranno i 5 Stelle con un vantaggio, a oggi, di 5-6 punti sul Pd che diventano una decina su Forza Italia. E almeno un pensiero a Giggino Di Maio bisognerà pure rivolgerlo.
Ma Beppe Grillo sta facendo di tutto per evitare l’eventualità che il giovane napoletano finisca davvero a Palazzo Chigi. La strategia dell’ex comico sembra un’altra: restare perennemente il primo partito di opposizione. Cavalcare il malcontento come un surfista che rimane sulla cresta dell’onda ma si tuffa in mare qualche metro prima di toccare la riva in equilibrio. Urlare, protestare, insultare ma non governare.
A quale scopo? I politologi si lambiccano le meningi per spiegare un fenomeno che non ha precedenti: in politica, da che mondo è mondo, ci si butta per conquistare il potere. I maligni, che com’è noto fanno peccato ma spesso ci azzeccano, hanno invece una risposta più terra terra: a Grillo interessa unicamente sé stesso, la sua immagine pubblica e i lauti incassi pubblicitari del blog. Un interesse che condivide con la società di comunicazione di Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau.
Le ultime scelte segnano una svolta nel M5s. Il nuovo codice etico lascia interdetti: i paladini dell’onestà potranno candidare non iscritti e indagati mentre agli eletti verrà imposta la “fiducia obbligatoria” nei confronti del capo, pena l’espulsione e una supermulta. Il potere di gestire il movimento toccherà a Di Maio, anche se Grillo si è riservato il diritto dell’ultima parola. Meglio, oggi tocca a Di Maio ma dopo le elezioni potrebbe non essere più lui. Perché il rovescio della medaglia nel nuovo meccanismo che regola il vertice del potere grillino è che il capo sconfitto si fa da parte. Per perpetuare il movimento e gli affari della galassia comunicativa della coppia Grillo-Casaleggio, dopo una batosta si prende un leader e lo si avvicenda con un altro.
Alessandro Di Battista ora è fermo ma è pronto a tornare in campo dopo la rottamazione di Di Maio. Mai sparare tutti i colpi in una sola battuta di caccia, meglio tenersi qualche cartuccia di riserva nella bisaccia. La strategia grillina prevede di mettere le radici nelle stanze del potere come movimento, anzi ormai come partito, per giocare un ruolo di interdizione ma senza mai sporcarsi le mani assumendosi vere responsabilità di governo. E lo stesso Grillo adotta lo stesso schema: non ci mette più la faccia. Il front-man, che oggi è Di Maio, ha carta bianca e se sarà sconfitto la disfatta sarà sua. Il movimento non ne viene coinvolto ed estrae dal cilindro un altro leader. La politica di Grillo è quella delle mani libere. Libere dai palazzi del potere, perché si può gestire un certo tipo di potere anche senza sedersi nella stanza dei bottoni, e dagli stessi leader del M5s. E comunque mani libere anche da ogni tipo di responsabilità.