A poche settimane dalle elezioni si moltiplicano i segnali di allarme per la crescita del numero di quanti dichiarano che non andranno a votare. E non si tratta del noto atteggiamento di protesta che, per più di un verso, è fisiologico nei sistemi democratici. Questa volta, dentro il gruppo degli indecisi e dei potenziali astensionisti, sono i giovani a costituire il gruppo più visibile: saranno il 47 per cento dei ragazzi e delle ragazze a non andare alle urne secondo Euromedia Research; e non è certamente l’unico istituto di ricerca a fornire risultati così preoccupanti.
La disaffezione dei più giovani dall’universo della politica non data da oggi, eppure non è difficile sospettare che proprio oggi la mancanza di lavoro contribuisca in modo rilevante alla diffusione di un tale atteggiamento. Il divario (spesso all’interno di una stessa azienda pubblica o privata) tra quanti sono garantiti e inamovibili e quanti sono semplicemente evanescenti e pronti a scomparire da un giorno all’altro, in quanto ricoprono gli stessi ruoli attraverso l’appartenenza a una cooperativa o con contratti settimanali quando non addirittura giornalieri, non è un fatto da sottovalutare. Che lo si voglia o no, siamo dinanzi a una frattura sociale oggettiva che corrode rapporti e scava differenze crescenti.
Una tale frattura è tanto più evidente quanto più, se si esce dal mondo dell’azienda per andare nel più ampio scenario sociale, ci si imbatte in un vero e proprio deserto dove la precarietà, l’occasione momentanea, i contratti a termine sono la regola.
Da qui le strategie devianti, i mille “mercati neri” che attecchiscono ovunque. E se fino a quindici anni fa solo i migliori partivano per l’estero (gli stessi che adesso dirigono dipartimenti universitari, governano agenzie stampa, operano nei centri di ricerca), da qualche anno si sono aggiunti anche gli altri: quelli che detestano stare ad aspettare e preferiscono fare i pizzaioli nel Kent o le cameriere a Stoccarda, come i loro bisnonni, piuttosto che oziare dentro casa o disperdere i propri vent’anni in contratti che non danno futuro.
Davvero si può onestamente ritenere che tutto questo poderoso distacco sociale non scavi fossati profondi e non sfoci nell’indifferenza (quando non addirittura nel rancore)? Ci si può veramente stupire dell’indifferenza – ormai strutturale – verso un universo della politica che, non potendo muoversi replicando le politiche occupazionali degli anni Settanta e Ottanta, non riesce a costruire un piano occupazionale credibile?
Dietro il potenziale astensionismo non c’è banale indifferenza, né tanto meno superficiale e irresponsabile presa di distanza, bensì la percezione, in sé logorante e pericolosa, di appartenere ormai a una frangia marginale e sempre più impotente, che è parte di una collettività ormai frammentata, per non dire dispersa e indifferente. Il “non sentire” più la politica, il risultare insensibili alle urne è allora la manifestazione di uno scoraggiamento nel quale convergono tanto la percezione realistica della crisi – quella che coglie la difficoltà oggettiva a recuperare trend che sembrano appartenere sempre di più al passato – quanto il risentimento verso un degrado che non concerne solo la corruzione dei vertici, ma anche la sfacciata e irresponsabile sventatezza della base, dove gli uffici pubblici continuano a mal-funzionare, le inefficienze si moltiplicano e i “furbetti del cartellino” proseguono imperterriti nel loro inverosimile e insopportabile far niente, come se fossimo ancora negli anni Ottanta.
Ma proprio qui risiede il nodo del problema. Prima ancora di politiche giovanili (delle quali si parla troppo poco) c’è bisogno di un recupero di dignità e di impegno, di dedizione e di senso civile. A un universo giovanile verso il quale abbiamo responsabilità considerevoli, abbiamo il dovere di mostrare un mondo all’opera, una società e una classe dirigente dove l’impegno e la dedizione costituiscono l’immagine di marca; dove i risultati vengono indicati e lodati, così come le inefficienze e le ruberie, prima ancora di essere stroncate, vengono percepite come vere e proprie oscenità, insulti e offese arrecate alla collettività tutta.
A chi entra nel mondo del lavoro, oppure è costretto ad attendere, accontentandosi di lavori precari e di prospettive indecise, accanto alle politiche per l’occupazione, abbiamo il dovere di presentare una società in piedi, capace di onore e di dignità. Solo rendendoci degni della stima di quanti hanno oggi vent’anni possiamo sperare che costoro vedano nelle urne lo strumento inaggirabile di una società democratica che comunque abiteranno. Solo a questa condizione possiamo veramente chiedere la loro fiducia e il loro consenso.