Tutto regolare. In politica si fa e si disfa in casa: si apre ad alleanze politiche, per poi sostituirle con semplici appelli pubblici e finire per correggerle convenientemente con espressioni — incolore — come “convergenze post voto”. Ma davvero il Movimento 5 Stelle potrà assicurare all’Italia un governo senza maggioranza elettorale e senza veri accordi politici?



Affidiamoci semplicemente ai fatti.

Sin dall’insediamento delle nuove Camere la partita sarà tutta politica. Il primo atto che attenderà i nuovi onorevoli ed i neosenatori sarà l’elezione dei rispettivi presidenti ed uffici di presidenza. Posti assolutamente ambiti, di altro prestigio istituzionale. E senza un accordo forte (ovvero, politico) ogni proposta, benché autorevole, è comprensibilmente destinata a naufragare.



Scenario destinato a riproporsi tal quale per l’elezione dei presidenti di commissione parlamentari e dei loro rispettivi uffici di presidenza. Altre poltrone ed altri inevitabili accordi politici “blindati”, frutto di alleanze non sul merito delle questioni (come propaganda promette) ma sull’assetto istituzionale.

Gli stessi accordi che, giocoforza, dovrebbero valere anche per il varo di un qualsiasi esecutivo con la chiara individuazione della maggioranza e, per contro, delle forze di opposizione.

Infatti, dopo l’elezione dei propri presidenti, le Camere saranno chiamate a concedere o meno la fiducia al nuovo governo. Un passaggio ed un voto “iper-politico” che presuppone non solo la condivisione di un programma ma anche la condivisione delle responsabilità della composizione e dell’operato dell’esecutivo.



In questo ferreo percorso istituzionale (che gli esponenti grillini conoscono bene ma che troppo spesso “dimenticano” di ricordare agli elettori) dove tutto viene centellinato al millesimo, è realistico solo immaginare che un governo monocolore 5 Stelle possa trovare in Parlamento qualcuno disposto, senza poter partecipare alle responsabilità amministrative (ovvero senza essere parte del governo) e senza possibilità di discutere il programma, a concedere un voto di fiducia? Oppure qualcuno disposto (e complice) ad uscire dall’aula (si tratterebbe in tal caso di circa il 40-50% dei deputati) per consentire il varo di un Governo di minoranza?

Ma non basta. Per quanto fantasiosa ed impraticabile, l’ipotesi grillina cozza irrimediabilmente con la prassi repubblicana per la quale il Capo dello Stato conferisce l’incarico dopo aver appurato l’esistenza di una possibile e concreta maggioranza attorno ad un percorso/progetto politico-istituzionale.

Dire quindi che, senza una reale maggioranza elettorale, una qualsiasi forza politica possa garantire un Governo con semplici “richieste di convergenza programmatica” o “appelli post-voto” e senza accordi politici reali e chiari è dire, semplicemente, il falso!

Un falso che, fra l’altro, oltraggia il Colle più alto a cui la Costituzione affida —anche nella scelta del capo del Governo — dignità di discernimento in favore del bene comune.