Rinvio dopo rinvio, la direzione del Partito democratico si è riunita stanotte alle 2.30. Una lunga notte, ma per i democratici la notte è piccola, come cantavano le gemelle Kessler. Oggi i gemelli Pd sono separati in casa, il segretario Matteo Renzi e il capo della minoranza interna Andrea Orlando non si parlano e trattano per interposto intermediario. Non è che sia una novità. Si sapeva che Renzi vuole una pattuglia di fedelissimi e che voleva tagliare l’erba sotto ai piedi degli oppositori. Orlando era pronto a battagliare sui numeri, ma è stato preso in contropiede dalla volontà di Renzi di mettere becco anche sui nomi. La minoranza l’ha vissuta come se un ladro fosse entrato in casa loro.



Renzi si è giustificato dicendo che bisogna scegliere i nomi con le maggiori probabilità di successo nei collegi, che ci vuole più società civile nelle liste e che Orlando non ha favorito nessun rinnovamento: i suoi nomi sarebbero soltanto vecchi arnesi che farebbero perdere più voti di quelli che portano. Il segretario vuole facce nuove, come quella di Giuliano da Empoli o quella nuovissima di Tommaso Cerno, pescato dalla condirezione di Repubblica: uno strappo nello strappo. Rinnovamento o no, è chiaro che a Renzi piacerebbe piazzare in lista soltanto dei soldatini di latta.



Non è soltanto questione di ossequio al capo. Il problema di Renzi è avere la certezza dei numeri quando si porrà il problema di stringere un patto di governo con Silvio Berlusconi, oppure no. La strada sembra segnata: Fedele Confalonieri ha dato un’intervista al Fatto Quotidiano, cioè al nemico e non al Giornale di famiglia, per dire che la prossima legislatura si reggerà sul patto Silvio-Matteo.

Berlusconi ha un problema analogo ma l’ha risolto più rapidamente, visto che è il padre — e soprattutto il padrone — del partito azienda. Il Cavaliere, più che la società civile, porterà in Parlamento semplicemente la società, cioè fedelissimi pescati all’interno del gruppo. Adriano Galliani dal Milan, Giorgio Mulé dalla Mondadori, Pasquale Cannatelli dalla Fininvest, Alberto Barachini da Mediaset, Francesco Ferri dal Centro studi del pensiero liberale. Chi ne fa le spese sono i fedelissimi di qualche colonnello troppo legato a Matteo Salvini, come per esempio due assessori regionali liguri legati al governatore Giovanni Toti. Sacrificato anche qualche posto inizialmente destinato alla “quarta gamba”: ieri sembrava che ai centristi in Lombardia fosse rimasto un solo collegio sicuro e che Maurizio Lupi stesse pensando di non occuparlo per non essere accusato di lavorare soltanto per sé.



Significa che anche Berlusconi vuole contare su numeri certi se dovrà spaccare la coalizione elettorale e accordarsi con il Pd renziano in una grossa coalizione. Ci sarebbe addirittura un nome di peso nelle liste della Lega che obbedirebbe a questa logica, ovvero Giulia Bongiorno: c’è chi sussurra che dietro la candidatura dell’ex avvocato di Giulio Andreotti ci sia nientemeno che un altro avvocato, il mefistofelico Niccolò Ghedini, che sfrutterebbe l’amicizia con la collega per avere notizie di prima mano dall’entourage salviniano.

Nessun partito si salva dalle decimazioni. Pietro Bartolo, medico di Lampedusa che assiste gli sbarcati, ha rifiutato un posto al Senato con Liberi e uguali perché gli avevano dato un collegio in Lombardia anziché in Sicilia, mentre uno scranno blindato era pronto per Alessio Pasquini, il portavoce di Piero Grasso. E poi ci sono le epurazioni dei grillini, i quali prima sbandierano la democrazia diretta delle parlamentarie ma dopo fanno quello che vogliono: aggiunte, cancellazioni, spostamenti, promozioni, retrocessioni. Possono permetterselo: essendo tutti o quasi dei signori nessuno, i loro voti i 5 Stelle li prenderanno comunque.