La candidatura di Tommaso Cerno, condirettore di Repubblica, nelle liste Pd per le politiche del 4 marzo di per sé non è una notizia clamorosa. Pochi giorni fa, nelle file del centrodestra, è stata la volta del direttore di Panorama, Giorgio Mulé, di cui Cerno è stato concorrente diretto fino a qualche mese fa come direttore dell’Espresso. E sono molti, probabilmente, a non ricordare che lo stesso Eugenio Scalfari, fondatore dell’Espresso e di Repubblica, giusto mezzo secolo fa fu candidato ed eletto deputato nelle liste del Psi: conquistando una preziosa immunità-scudo verso le indagini giudiziarie sulle sue inchieste giornalistiche sul tentato golpe De Lorenzo. Il Parlamento è ambiente elettivo per i professionisti della carta stampata: era un giornalista Giovanni Spadolini, primo premier non democristiano dell’Italia repubblicana.



È’ vero che la decisione “sofferta e personale” di Cerno interroga i suoi colleghi giornalisti lungo almeno due coordinate di cronaca: la giornata di forte crisi registrata proprio ieri dal vertice Pd attorno alla chiusura delle liste; e lo scontro fra Scalfari e l’editore Carlo De Benedetti proprio attorno alla conduzione di Repubblica. Due vicende a loro volta tutt’altro che scollegate.



E’ plausibile far risalire alla seconda vicenda l’uscita di Cerno, nominato pochi mesi fa dal direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Cerno era stato citato direttamente da De Benedetti in una prima intervista polemica rilasciata al Corriere della Sera. Non è inverosimile che l’Ingegnere abbia criticato strumentalmente il neo-condirettore di Calabresi. Parimenti è parsa molto tattica la replica di Scalfari: Cerno sarebbe stato designato non solo per scelta del direttore e dell’amministratore delegato Monica Mondardini, ma anche di De Benedetti, oggi senza più legami formali con l’editoriale. Un giornalista esperto come Cerno, presumibilmente, ha preferito chiamarsi fuori come oggetto — certamente involontario — di un conflitto senza precedenti, che interseca le difficoltà crescenti del gruppo Espresso-Repubblica al pari delle parallele tensioni strutturali nel mercato politico della sinistra progressista in Italia, a ridosso delle elezioni.



Cerno in ogni caso si è candidato — oppure è stato candidato — nel Pd, di cui Repubblica è stata a lungo specchio come partito-azienda, condividendone infine le recenti divisioni e sofferenze. De Benedetti, stracciata la “tessera numero uno” del Pd originario battezzato da Walter Veltroni, si è via via disamorato del Pd di Matteo Renzi. L’ultimo atto è la contestazione parallela in corso sia del Pd renziano sia della conduzione filo-renziana di Repubblica da parte di Calabresi. Due episodi recentissimi hanno fatto precipitare la situazione: una battuta equivoca di Scalfari in apparente apertura a Silvio Berlusconi (che trent’anni fa contese a De Benedetti il controllo di Espresso e Repubblica); e le rivelazioni sulle operazioni di Borsa di De Benedetti emerse nella commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, voluta da Renzi. All’Ingegnere è rimasto il sospetto che il “caso De Benedetti” sia stato creato agli sgoccioli della commissione Casini per sviare l’attenzione mediatica sul “caso Boschi” attorno a Banca Etruria; e che un possibile “governo del Nazareno” fra Pd renziano e centrodestra berlusconiano possa guardare a un cambio di proprietà di Espresso-Repubblica (con la famiglia Agnelli, azionista di minoranza di Gedi, sulla sponda del fiume).

Proprio ieri, comunque, la candidatura “paracadutata” di Cerno è giunta a terra nel mezzo di un violento scontro interno alla direzione Pd: scoppiato proprio attorno a metodo e merito delle preparazione delle liste. E tutto è nato da un ennesimo “caso Boschi”: al sottosegretario alla Presidenza del governo Gentiloni sarebbe alla fine riservata una candidatura uninominale a Bolzano, blindata — si dice — dai negoziati diretti fra l’ex ministra e le autorità politiche della Provincia autonoma al tavolo delle riforme. Avrebbero il loro peso anche alcune decisioni del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio a favore dell’Alto Adige. Ma come si usava annotare prima del digitale: “Al momento della chiusura in tipografia” (nella notte fra venerdì e sabato) tutto era ancora in alto mare.

Che il caso Cerno c’entri con il caso Boschi, che il caso Repubblica sia l’altra faccia del caso Pd lo dice l’abc del cronista: chi, cosa, dove, come, quando. Analisi e commenti, invece, non sono per nulla facili. Se lo fossero, il Pd — erede di Dc e Pci e alla guida del governo negli ultimi cinque anni — non sarebbe a rischio di uscire dal voto soltanto come terza forza politica italiana. E Repubblica, unico gruppo di editoria giornalistica nazionale con i conti ancora in ordine, non si ritroverebbe in uno psicodramma politico-editoriale. E di sicuro non sarà la migrazione di un giornalista dal cursus più che rispettabile che potrà risolvere i problemi del Pd è tanto meno quelli di Repubblica.