Sedurre l’interlocutore tecnico fingendo di starlo a sentire e di dargli importanza, convincerlo a scendere in campo per annettersene la credibilità e poi ignorarlo: è una tattica che Matteo Renzi ha usato mille volte, all’inizio della sua carriera politica nazionale, e che ha conquistato – e poi deluso – decine di personaggi, lasciandone tuttora irretiti altrettanti. È una tattica furbastra, da mezzo prete di periferia: far leva sul narcisismo, sull’ego di ciascuno – che male c’è? Tutti l’abbiamo – per crearsi una finta squadra che all’atto pratico o si è adattata a vivere da yes man o si è dileguata.



Qualcosa di simile dev’essere successo cinque anni fa a Yoram Gutgeld, ex consulente economico numero uno del Renzi premier, poi commissario governativo alla spending review pressoché (e dichiaratamente) inoperoso, oggi nemmeno ricandidato, e tuttavia – onore al merito – non per questo rancoroso contro il “principale”.



Gutgeld, sia detto subito, è un cervellone. È un economista israeliano di lunga formazione e pratica statunitense, top-manager della McKinsey per la quale aveva aperto l’ufficio di Tel Aviv sviluppandovi una consulenza delicatissima e prestigiosa per l’esercito nazionale. Insomma, è uno che non solo – a differenza di tutti i renziani veri della prima ora – un mestiere ce l’aveva, prima di scendere in politica, e non era un sfaccendato puro; e poi aveva un signor mestiere, da 1,5 milioni di stipendio all’anno. Insomma, una bella differenza.

E allora, come mai si è lasciato incantare dalla sirena renziana e poi è rimasto al suo posto resistendo fin da subito a una serie di sganassoni morali e disillusioni politiche che avrebbero tramortito un bue? Vallo a sapere. Quattro anni fa fioccavano le dietrologie: Gutgeld anello di congiunzione tra i servizi italiani e il Mossad (gli agenti segreti israeliani), Gutgdel garante dei rapporti tra il premier e la Cia. Tutte panzane.



La verità è che il manager, come vari altri, aveva sentito il richiamo esotico del safari istituzionale. Come Andrea Guerra, inutilmente transitato sei mesi al ministero dello Sviluppo economico senza combinare niente di buono ma a maggior gloria del Matteo da Rignano, o come, adesso, Diego Piacentini di Amazon, prestatosi a fungere gratis per due anni da capo dell’agenda digitale e ridottosi a promozionare – che bello, che bello – il fatto che le tasse si possono pagare da oggi anche col bancomat, capirai il brivido blu…

Safari istituzionale, ovvero il brivido di scendere dagli uffici perlinati all’ultimo piano dei grattacieli e calarsi nella suburra politica a domare le fiere della lottizzazione. Salvo finire sbranati. Già, perchè Matteo è rapido a dirottare la sua attenzione dalla vittima sedotta alla prossima da sedurre; e soprattutto – come tutti gli ignoranti – detesta la competenza di chi ce l’ha e coltiva (“pro domo sua”) il mito che con l’intelligenza e l’intuito si possa sopperire a qualsiasi lacuna. Quindi Gutgeld, che comunque in quanto a ego non scherza, dopo i primi mesi da ascoltato consigliere di politica economica in genere si è visto emarginato – osava dire qualche “no”, qualche “ma” e qualche “se” – e soppiantato dal più ridanciano e cuorcontento Tommaso Nannicini. Ed è stato parcheggiato alla direzione per la spending review, a fungere da commissario. In questa veste cruciale, la sua diagnosi è stata che c’è ben poco da tagliare, e soprattutto quel poco è tagliabile lentamente, in 5 anni. Come dire: la spesa pubblica italiana è questa, rassegniamoci!

Pare sia stato lui a suggerire a Renzi l’idea di mettere gli 80 euro (all’inizio erano 100) in tasca agli italiani, che oggi peraltro elettoralmente non macinano più nulla. O ancora l’idea di tagliare i costi delle forze dell’ordine mediante l’accorpamento della Forestale ai Carabinieri. Niente si rilevante, insomma. Ci vuol ben altro per ridurre gli 800 miliardi di spese annue del bilancio statale.