La diciassettesima legislatura sarà probabilmente ricordata come una delle più contraddittorie, deludenti e ansiogene nella storia della repubblica. La campagna elettorale, che si chiude tra un mese, rispecchia fedelmente l’andamento di questa legislatura. Qualcuno ha fatto paragoni che, a nostro parere, non hanno alcun senso. 



C’è chi ha azzardato un accostamento persino con il grande scontro del 1948, quando c’era il Fronte popolare a misurarsi contro la Democrazia cristiana e i suoi alleati. Ma tali paragoni rivelano solo la pochezza della memoria italiana e la confusione storica, anche a livello accademico, che esiste in questo Paese. 



Nel ’48 ci si scontrava su una scelta di civiltà, di schieramento strategico, di confronto che sarebbe durato poi per mezzo secolo tra la falsa “dittatura del proletariato”, guidata da un “alfiere al contrario” della democrazia come Stalin, e il modello della democrazia occidentale, quella che aveva resistito, da sempre (non a tratti come i sovietici) al nazismo, e alla fine lo aveva sconfitto, difendendo “l’imperfetto” ( ma purtroppo non si è ancora scoperto nulla di meglio) modello della democrazia rappresentativa occidentale.

La partecipazione a quella consultazione elettorale fu impressionante e la vittoria delle forze democratiche garantì all’Italia i cosiddetti “magnifici trenta”, gli anni della grande espansione economica e un consolidamento delle democrazia come mai l’Italia aveva conosciuto. Il comunista Giorgio Amendola diceva nel 1975: forse c’è stata solo una grande espansione economica, non un autentico boom e uno sviluppo equilibrato, ma è certo che mai gli italiani sono stati così liberi e hanno mangiato così bene nella loro storia.



Ma Amendola era un personaggio scomodo, perché aveva il coraggio di dire la verità, proponeva soluzioni alternative e il superamento del leninismo. Il Pci lo ricambiava “venerandolo” per il nome di una famiglia autenticamente antifascista, ma relegandolo nello stesso tempo in una teca di vetro per le sua capacità innovative.

Paragonare quelle elezioni e la successiva storia della prima repubblica alle consultazioni elettorali del prossimo 4 marzo è come fare un oltraggio da squinternati ignoranti alla storia.

Oggi noi viviamo in un clima di incertezza democratica ed economica che dura da 25 anni. Attraverso tappe di convinta impolitica militante, siamo infatti arrivati a una sorta di tripolarismo incomprensibile che sembra assicurare la sconfitta di tutti i tre cosiddetti “poli”, mentre dal 1992 si era preso l’impegno solenne di allineare l’Italia al bipolarismo delle democrazie anglosassoni.

In base agli studi, ai rilevamenti e alle osservazioni ragionate sullo stato dell’Italia, si è arrivati (si può citare il rapporto Censis, che si è già voluto dimenticare, ma non solo) alla conclusione che il Paese vive nel momento della sua massima disillusione e diffidenza storica verso tutte le istituzioni repubblicane. In Italia, tanto per intenderci (e non è il Censis a dirlo) solo il 19 per cento ha fiducia nello Stato. Un dato da brivido. 

Se si aggiungono a questa sfiducia gli effetti della crisi economica, la confusione istituzionale, il disordine burocratico e una pressione fiscale che taglia letteralmente gli investimenti, si ha uno spaccato che diventa inquietante.

Che cosa comporta tutto questo? E’ come se assistessimo alla nascita di un bipolarismo anomalo, con da un lato la voglia di spazzare via tutto, limitandosi al momento all’assenteismo di massa, e dall’altra aggrappandosi a una volontà disperata di assicurare un minimo di stabilità al Paese.

Le promesse da campagna elettorale dette e ripetute su tutti i media in una confusione perpetua, non sembrano avere alcun effetto. L’elettorato non sembra spostarsi da mesi in base ai rilevamenti dei sondaggi: il saliscendi dei pentastellati oscilla sempre intorno al 27 per cento; il Pd è calato, lacerato al suo interno dopo aver subito una scissione; il centrodestra sembra un’informe ammucchiata ricca di contraddizioni. In più, si parla insistentemente di una campagna elettorale fatta all’insegna della promessa facile, delle “maxiballe”, tanto per intenderci e quindi non in grado di spostare anche nell’ultimo mese pezzi importanti di elettorato.

La preoccupazione che questo bipolarismo anomalo e inquietante prenda piede è più consistente di quanto si creda. Nel giro di venti giorni il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, evidentemente preoccupato, è tornato due volte sulla necessità di partecipare al voto. Se si guardano le analisi dei grandi quotidiani, i più allineati con il potere e in tutti i casi con la paura di una caduta fragorosa, si nota sopratutto la sottolineatura di un pericolo per l’astensione e un invito ad andare alle urne.

In tutto questo, in un clima di bipolarismo anomalo di tal tipo, non giova di certo la nuova rissa nel Pd per la formazione delle liste, la continua contestazione che avviene nei 5 Stelle dopo le “parlamentarie” o chissà cos’altro. E non giova neppure il marcamento a uomo tra le dichiarazioni di Berlusconi, di Salvini e della Meloni, che sembrano aggrovigliare sempre di più anche la coalizione di centrodestra.

Resta alla fine, di fronte a una simile situazione, la speranza che questo bipolarismo anomalo non provochi sconquassi e, in attesa che ritorni una parvenza di politica, ci sia una nuova prova di maturità e di sopportazione degli italiani. Il che significa: una discreta partecipazione alle urne e la possibilità di creare una maggioranza che in qualche modo non lasci l’Italia allo sbando, in una situazione internazionale che è sempre più ingarbugliata. 

E’ una speranza e, sia chiaro, è legata a un male minore.