Il quotidiano la Repubblica, orfano di un condirettore candidato in un ventaglio di collegi sicuri per il Pd, ha lanciato ieri un retroscena velenosissimo. Silvio Berlusconi, nel recente tour tra i poteri forti di Bruxelles, avrebbe garantito al presidente della Commissione Ue che la Lega e i 5 Stelle non saranno mai al governo. Sembra il sigillo posto alle voci che circolano da settimane e si fanno sempre più insistenti. Ma c’è di più, in realtà: dire a Jean-Claude Juncker che Matteo Salvini non farà parte del governo significa promettere che il patto elettorale che riunisce il centrodestra in vista del 4 marzo verrà infranto anche in caso di vittoria.
Se quello che scrive Repubblica è vero, si tratterebbe di un’ammissione clamorosa. Quali appoggi vengono citati a sostegno dello scoop? Le reazioni della Borsa e dello spread, mai così basso, segno che non esistono timori sulla tenuta del Paese all’indomani del voto: ma tenderemmo a escludere che Juncker, appena congedato il Cavaliere, possa essere intervenuto di persona sugli speculatori finanziari. D’altra parte, uno dei presenti ai vertici di Bruxelles, cioè Antonio Tajani, numero uno dell’europarlamento, ha negato che si sia parlato di formule di governo: ma è come chiedere all’oste se il suo vino è buono. Dagli azzurri non possono arrivare che prevedibili smentite all’articolo del quotidiano diretto da Mario Calabresi.
Da Forza Italia non sono giunti commenti, mentre Salvini ha liquidato l’indiscrezione con una replica lapidaria: “Mi fido di Berlusconi, abbiamo firmato un programma, non abbiamo fatto chiacchiere da bar”. Il circolo dei collaboratori del Cav ha minimizzato la cosa come il tentativo del giornale-partito di incuneare divisioni nel centrodestra. La stessa Repubblica si è guardata dal riproporre a Berlusconi altre 10 domande sul colloquio con Juncker. Nemmeno a Largo Fochetti credono che il loro retroscena possa far tremare l’asse Berlusconi-Salvini.
Restano comunque alcuni nervi scoperti nella coalizione data per vincente. Primo, l’Europa non si fida dei populismi e riabilita il capo di Forza Italia soltanto in funzione anti-Salvini.
Secondo, il Cavaliere non riesce ancora a sciogliere i nodi più intricati dell’alleanza: cosa fare di fronte ai vincoli europei, quali coperture finanziarie offrire alle promesse fatte da lui stesso e dal segretario della Lega, chi sarà il candidato premier della coalizione in caso di vittoria.
Terzo, le larghe intese restano l’ipotesi più accreditata dopo il voto nelle cancellerie europee e rappresentano una forte pregiudiziale su ogni scelta dopo il 4 marzo.
Quarto, è sempre più chiaro che le liste di Forza Italia e Pd, grigie, piatte, senza alzate d’ingegno ma ripiene di fedelissimi pronti a votare qualsiasi cosa pur di ossequiare colui al quale devono le loro fortune, servono soprattutto per mettere a disposizione dei capi delle pattuglie coese, compatte e affidabili. Truppe che non creino troppi problemi se ci saranno alleanze da destrutturare e bocconi indigesti da ingurgitare. Sempre che Renzi riesca a tenere unito quel che resta del Pd e raggiungere una rappresentanza parlamentare che gli consenta di sedere al tavolo delle trattative con la prospettiva di contare ancora qualcosa.