Avere il Pil della Cina? Sarebbe il sogno di tutti i governi, ma molto difficilmente quella crescita sarebbe “sostenibile”. Di sostenibilità si parla un po’ ovunque e forse a sproposito. Una parola di moda dal significato apparentemente sfuggente, ma non per questo meno preciso se si ha la pazienza si curiosare sotto la superficie e di ripercorrerne brevemente la storia. Potrebbe mai darsi un programma elettorale le cui ricette in materia sociale e economica non fossero “sostenibili”? Certamente no. Ma è anche vero che non se ne traggono le dovute conclusioni, spiega Enrico Giovannini, economista, già presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo Letta. Giovannini è fondatore e portavoce di Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, fondata nel 2016 per promuovere negli attori e nelle realtà sociali, politiche e d economiche del paese la consapevolezza e le strategie necessarie per incamminare l’Italia sulla via di un futuro non solo economicamente “sostenibile”. Si tratta di una rivoluzione culturale che prende le mosse dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile promossa dalle Nazioni Unite e sottoscritta nel 2015 da 192 paesi. Asvis, che riunisce oltre 180 organizzazioni della società civile, in vista delle elezioni del 4 marzo ha lanciato un appello in 10 punti per garantire, da parte del prossimo governo e della prossima legislatura, il rispetto degli impegni assunti dall’Italia con la sottoscrizione dell’Agenda 2030.

Enrico Giovannini, diciamo “sostenibilità” ma il senso certamente sfugge ai non addetti ai lavori. Perché?

Per molti anni lo sviluppo sostenibile è stato considerato qualcosa che ha a che fare con l’ambiente, il che certamente è importantissimo, ma con la firma dell’Agenda 2030 nel settembre 2015 tra 192 paesi del mondo, Italia compresa, il termine ha assunto un significato preciso, articolato e complesso.

In sintesi, professore?

Sostenibilità è consentire alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare la possibilità che la generazione futura faccia altrettanto. Se l’attuale generazione sfrutta il capitale capitale fisico, finanziario, sociale, naturale e umano che spetterebbe alle generazioni future per soddisfare i propri bisogni, vuol dire che quella generazione è su un sentiero di non sostenibilità.

Insomma un concetto dalle molte facce, che vanno sempre tenute insieme.

Sì. Oggi parliamo di sostenibilità economica, sociale, ambientale e addirittura istituzionale. Se il pilastro economico cade, il sistema crolla esattamente come se venisse meno il pilastro dell’ambiente. E’ un concetto a tutto tondo, un concetto difficile perché il modo in cui si insegna l’economia, si produce, si fanno i giornali e via dicendo è lontano da questi criteri. La grande sfida culturale, e dunque anche politica, è riuscire a sviluppare e poi anche raccontare un pensiero integrato.

In termini pratici, parliamo della capacità di raggiungere i 17 obiettivi fissati nell’Agenda (es.: sconfiggere la povertà, energia pulita e accessibile, lavoro e crescita economica, ridurre le disuguaglianze, etc.), è così?

I diciassette goal ma soprattutto i 169 target nei quali i primi si articolano, sono stati un modo per dare concretezza e praticabilità al concetto. Un esempio per tutti: abbattere il numero dei Neet entro il 2020. Se sono tanti come in Italia, si mette a rischio la capacità della futura generazione di fare alcunché e a perderci è l’intero paese.

Nell’appello di Asvis si dice che l’Italia è deficitaria in termini di sostenibilità. A che cosa va imputato il nostro ritardo?

Nell’ultimo rapporto Asvis abbiamo costruito degli indicatori sintetici per ogni goal per fare capire come si è evoluta la posizione italiana negli ultimi 10-15 anni. E prima di quello il ministero dell’Ambiente, e dunque il governo, ha fatto un’analisi dettagliata sui 169 target in rapporto all’Italia e ha concluso che non siamo su un sentiero di sostenibilità. Nei 17 goal in nessun caso siamo in una condizione “verde”, in 10 goal siamo in una situazione “rossa”, in altri 7 in una situazione “arancione”. 

Che cosa significa?

La crisi economica ha colpito duramente in termini di povertà, disuguaglianze, perdita del lavoro, e sul fronte sociale siamo indietro. Dal punto di vista ambientale, benché con luci e ombre, abbiamo avuto un deterioramento marcato di alcune condizioni, dai sistemi marini alla distruzione di suolo. Dal punto di vista economico abbiamo avuto una crescita molto bassa, addirittura la peggiore recessione nella storia del nostro paese, con un ritorno del reddito a livelli ampiamente inferiori a quelli pre-crisi.

E se per ipotesi riuscissimo ad impostare una politica fortemente orientata alla crescita?

Magari miglioreremmo alcuni aspetti, ma senza una transizione ecologica nel modo di produrre, aumenteremmo le emissioni e peggioreremmo l’ambiente. Nel Rapporto mostriamo attraverso un modello della fondazione Mattei quanto il percorso verso lo sviluppo sostenibile sia “strettissimo”, per usare un’espressione cara al ministro Padoan. Confindustria se n’è accorta e la scorsa settimana ha pubblicato il suo manifesto per lo sviluppo sostenibile, suonando la sveglia alle imprese e sottolinenando come sia i consumatori che la finanza internazionale vadano ormai in questa direzione. 

A proposito di imprese. C’è un identikit delle aziende per le quali oggi è più facile conseguire gli obiettivi della sostenibilità? 

Rispetto al passato, quando l’Onu aveva già tentato iniziative di questo tipo, la grande differenza è che le imprese, almeno le grandi imprese e quelle organizzate a livello internazionale, sono divenute protagoniste attive nel raggiungimento dell’Agenda.

Che cosa le ha convinte?

Si sono rese conto che la sostenibilità è conveniente. Invece di insistere a ridurre il 20% dei costi tagliando posti di lavoro, è meglio concentrarsi sulla riduzione dell’80% dei costi dipendenti dalle materie prime e dagli altri prodotti intermedi. Hanno capito che il passaggio all’economia circolare non solo riduce l’impatto sull’ambiente, ma aumenta l’occupazione e anche la redditività. Senza contare che soprattutto il mondo dei giovani sta orientando le proprie scelte di consumo in questo direzione. Quante pubblicità oggi usano la parola “sostenibile”? Ciò non toglie che tante aziende facciano greenwashing, pubblicità per mettersi a posto la coscienza.

Dunque occorre cambiare il modello di sviluppo. Ci riusciremo?

Possiamo e dobbiamo farlo, concentrando ora gli sforzi sulle medie e piccole imprese. In questo il governo italiano ha commesso un errore gravissimo alla fine del 2016, quando essendo l’Italia l’ultimo paese ad adottare una direttiva europea che obbliga le imprese alla cosiddetta contabilità integrata ha limitato quest’obbligo alle aziende con più di 500 addetti: parliamo di un migliaio di imprese non di più. Per questo stiamo lavorando con le associazioni di categoria per promuovere una rendicontazione semplificata che tenga dentro almeno le imprese medie. Anche la finanza internazionale va in questa direzione.

Ad esempio?

BlackRock smetterà di investire in imprese che non rispettano i criteri sociali e ambientali. Questa è una buona notizia ma anche un segnale chiaro che la finanza internazionale è molto preoccupata per i propri investimenti. 

Che risposte avete avuto dalle forze politiche?

Ho incontrato finora alcuni leader: Di Maio, Grasso, Bonino, Lorenzin, questa settimana ne incontrerò altri e spero la settimana ventura di finire il giro. In alcune forze politiche ho trovato grande attenzione, segno che i politici stanno cogliendo il cambiamento in atto. Aspettiamo di vedere i programmi elettorali, perché non tutti li hanno pubblicati, ma siamo fiduciosi di trovare in molti di essi le tracce del nostro paziente lavoro.