Il partito di Beppe Grillo, il Movimento 5 Stelle, ha mille problemi legali e costituzionali. Su queste pagine anni or sono abbiamo denunciato la follia di avere un partito concesso in eredità di padre in figlio a Davide Casaleggio, come se fossimo in Corea del Nord.

È folle poi che il M5s giochi in questioni leguleie per dire che non è un partito ma un movimento e che quindi non deve rispondere alle norme che regolano la vita dei partiti. Infine c’è tutta l’opacità del sistema Rousseau che gestisce ora 10mila candidature spontanee, mentre i veri eligendi saranno scelti da probiviri. Tra essi c’è il vate Grillo, l’erede al trono Kim Jong-Un-Davide Casaleggio e l’uomo qualunque Luigi Di Maio.



Detto ciò, ci sono due ordini di problemi per cui il M5s è un passo davanti agli altri. Ci sono enormi colpe del sistema politico e destra e sinistra non solo ne condividono responsabilità, ma non hanno fatto granché per affrontarle. Il M5s non ha intercettato tutta l’insoddisfazione perché la sua unica grande prova, il governo di Roma, è un fallimento. La risposta grillina è naturale: Roma è un caos, ma altrove gli altri hanno fatto lo stesso. Se però Grillo è come gli altri, che bisogno c’è di lui? Sulla base di questo pensiero elementare, moltissimi semplicemente possono decidere di astenersi.



In ogni caso, se il duello è tra Berlusconi, Renzi e Grillo, c’è una fetta di persone che sceglierà Grillo. Con questi elettori ogni discorso sulla governabilità non vale, non fosse altro perché pensano che, avendo avuto tutti un posto alla mangiatoia, ora Grillo e i suoi se lo sono meritati. Né valgono discorsi legali, che paiono ai militanti scuse per escludere arbitrariamente il movimento.

Affrontare i pentastellati per le vie legali (la trasparenza, etc.) così come la sinistra cercò di battere Berlusconi non nelle urne ma con i pm, finirà per approfondire la frattura del paese e spingere ulteriormente i votanti al rigetto politico.



Occorrerebbe un colpo di reni. Ci sarà? Improbabile. Con il senno di poi è chiaro che l’impero Qing, dopo la sconfitta nelle due guerre dell’oppio nel 1840 e 1856, era allo stremo. La ribellione armata dei Taiping poi aveva decimato la popolazione e impoverito in pochi decenni la Cina, che fino a poco prima era lo stato di gran lunga più ricco del mondo. Ancora tra il 1870 e il 1890 la Cina avrebbe fatto in tempo a riprendersi, come proprio in quegli anni fece il vicino Giappone. Ma essendo una vecchia civiltà, appesantita da eredità antiche, Pechino non vide la drammaticità della situazione e scelse di tirare a campare. Fino a quando tutto cadde a pezzi.

Oggi l’attacco congiunto dell’astensione e del populismo di M5s è una versione pacifica, per fortuna, della rivolta dei Taiping. Ma indica gli stessi problemi: l’incenerimento del vecchio stato.