Nessuno che capisce minimamente di politica può aver creduto, neppure per un minuto, che il centrodestra potesse finire in mille pezzi. Da Arcore l’area moderata riparte con un nuovo slancio, grazie a quel balsamo straordinario che si chiama profumo del potere. Ma il nodo più spinoso, il candidato per Palazzo Chigi, è rinviato a dopo il voto, quando forse potrebbe non servire neppure, se la vittoria dovesse essere parziale e senza la maggioranza assoluta.
Per ora la contraddizione del centrodestra sta nella guerra dei simboli: quello della Lega, che cancella la parola “Nord” ma riporta la dicitura “Salvini premier”, e quello di Forza Italia, reso noto poche ora prima del pranzo della pace, dove si rimpicciolisce il tricolore, a vantaggio di un polemico “Berlusconi presidente” a caratteri quasi cubitali.
Intorno al desco di Villa San Martino la partita si è giocata su un crinale sottile. Ciascuno dei commensali ha dovuto cedere qualcosa per affermare il proprio punto di vista su qualcosa d’altro, con Berlusconi a Salvini nel ruolo dei principali contendenti. Un punto a favore del vecchio leader azzurro è l’aver affermato che le gambe della coalizione sono quattro, con i centristi a fianco delle tre forze maggiori. Ma Salvini ha strappato la possibilità di stoppare i nomi più sgraditi, come l’ex leghista Flavio Tosi, già sindaco di Verona, l’ex sottosegretario Enrico Zanetti, leader di quel poco che resta di Scelta Civica, o l’ex ministro Maurizio Lupi, ex Nuovo Centrodestra. In più la Meloni ha strappato l’impegno a una manifestazione pubblica anti inciucio a febbraio, per cercare di fugare l’impressione che dal 5 marzo scatti il rompete le righe della coalizione, ciascuno verso la partita che più gli conviene giocare sulla base dei numeri.
Salvini, per parte sua, ha sventolato un grande successo sul piano programmatico, dal momento che nel comunicato finale campeggia la radicale revisione della legge Fornero, seguita da introduzione della flat tax, controllo dell’immigrazione e meno vincoli dall’Unione Europea.
Un sostanziale pareggio, insomma, almeno per il momento. Saranno gli elettori a decidere il vincitore. E per un pugno di voti in più ne vedremo delle belle. Berlusconi si sente sicuro, al punto di affermare che Forza Italia garantirà da qualunque tentazione demagogica. Dice che la Lega è una forza responsabile, ma che l’elemento trainante della coalizione sarà Forza Italia, di gran lunga più forte. Ovviamente Salvini è di opinione opposta, e il braccio di ferro è solo all’inizio.
Si combatterà casella per casella al tavolo delle candidature (la Lega dovrebbe averne il 40 per cento), così come a quello in cui il programma verrà definito. Un seggio in più potrebbe fare la differenza. Certo, nessuno vuole fare regali agli avversari, tanto è vero che nel vertice di Arcore è stato anche definito che all’estero vi sarà una lista unica con i nomi dei tre leader. L’esperienza del 2006 insegna che un pugno di seggi votati dai nostri connazionali che vivono nel resto del mondo potrebbe fare la differenza. Sarebbe bene ricordare il nome di Luigi Pallaro, el senador, made in Argentina.
Ma all’indomani del vertice di Arcore vi sono alcuni punti estremamente scivolosi che potrebbero rivelarsi piombo nelle ali del centrodestra, limitando fortemente la portata di una vittoria annunciata.
Si tratta soprattutto delle candidature per le due Regioni in cui si voterà in contemporanea con le politiche: Lombardia, ma anche Lazio. All’improvviso nel tinello di Arcore è scoppiato il caso Maroni, la possibilità che il governatore uscente si faccia da parte. Sulle ragioni di questo possibile passo indietro sono circolate le voci più disparate, da problemi giudiziari in arrivo sino all’estremo opposto del tenersi pronto a essere il premier “di mediazione” per il centrodestra. In mezzo anche le voci di un braccio di ferro fra Maroni e Salvini, contrarissimo alla riproposizione della “Lista Maroni”, decisiva nel 2013. Se l’ex ministro dell’Interno dovesse alla fine decidere di non correre le due ipotesi in campo sono il leghista Attilio Fontana, già sindaco di Varese, e la forzista Maria Stella Gelmini, coordinatrice degli azzurri in Lombardia. Il fatto è che solo Maroni, sondaggi alla mano, dà la certezza di vittoria sul candidato del centrosinistra, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Per tutti gli altri sarebbe dura. E bisogna vedere a chi nel centrodestra conviene perdere la storica roccaforte lombarda.
E nel frattempo nel Lazio bisogna fare i conti con la corsa già iniziata in solitaria di Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice e portabandiera dei diritti dei terremotati. La Meloni pare abbia proposto per lui un seggio senatoriale, mentre a quel punto il candidato più quotato potrebbe essere Maurizio Gasparri.
Nel puzzle delle candidature vi saranno i presupposti per una vittoria, oppure per una vittoria di Pirro. Non è detto che i leader del centrodestra ne siano del tutto consapevoli.