Lo scenario non si semplifica affatto. I tre blocchi che si presenteranno alle elezioni del 4 marzo rischiano tutti una inutile maggioranza relativa. Nella Villa di Arcore, a casa di Silvio Berlusconi, si è delineata la coalizione di centrodestra che a questo punto appare favorita, con le tre gambe e una eventuale “quarta gamba” che alcuni sono pronti a definire “stampella”. 



Le stime di questo rassemblement lo accreditano intono al 37-38 per cento, valutando Forza Italia sul 17 per cento, la Lega di Salvini al 15 (ma con autentici exploit in Lombardia e Veneto), Fratelli d’Italia di Giorgia Melloni al 5 per cento (sottostimata). Poi i cespugli, i petali, la gamba o la stampella di tutti i centristi che hanno girato continuamente per questi cinque anni in Parlamento, sotto diverse bandiere.



La percentuali sono credibili, ma i rapporti di forza all’interno del centrodestra sono sempre contraddittori e sembrano appunto complicarsi. Salvini, segretario di una nuova Lega non più solo nordista, è di fatto l’erede dell’unico partito della prima repubblica sopravvissuto e può vantare esperienze di governo locali e nazionali. Di fatto il segretario leghista è riuscito a trasformare il vecchio indipendentismo padano in una sorta di contestazione autonomista contro l’Europa e in subordine contro il centralismo italiano. Ma non si può attribuire una visione di lungo respiro al partito di Salvini e alla sua Lega. Lui ha fatto resuscitare il vecchio Carroccio per gli errori politici della sinistra e per il gioco morbido di Forza Italia soprattutto sulla questione degli immigrati. Ha operato un perfetto contropiede in un’Italia sbrindellata. 



Forza Italia, con ancora Silvio Berlusconi in sella, gioca invece la sua ennesima partita per un governo di moderata contestazione all’Europa, con cui comunque dialogare a tutto campo, e di moderate riforme in Italia, senza neppure mettere in discussione tutte le trappole finanziarie, e quelle del mercato globale, che gli possono venire addosso all’interno e all’esterno del Paese. Giorgia Meloni seppur più motivata ideologicamente anche su problemi attuali, soffre di un’appartenenza antica di cui non riesce a liberarsi. Il resto che appartiene al centrodestra raccoglie quello che può e si accoda in pura contrapposizione alla sinistra.

Per realizzare una simile coalizione, Berlusconi ha oggi, molto più che un tempo, la necessità dei voti della Lega o almeno di una parte della Lega che lui definisce “ragionevole”. E’ qui che si svela la ritirata di Roberto Maroni dalla corsa alla presidenza della Regione Lombardia e l’assunzione di un ruolo da playmaker a tutto campo in un ipotetico governo di maggioranza di centrodestra.

Ma Salvini, di fronte a Maroni e alle sue aspirazioni, che fa? Lascia campo libero? Si tira da parte? E non si dimentichi la stesura di un programma: Giorgia Meloni non ha nulla da dire o da rivendicare?

Il vento di destra che soffia sull’Italia e sull’Europa pone inevitabilmente tra i favoriti la coalizione e un governo di centrodestra. Si tratta, anche in questo caso, di un eterno ritorno al passato, tra la stanchezza e la disillusione degli elettori. Tuttavia in questo campo della destra c’è la contraddizione riassunta dal dualismo Salvini-Maroni, con Berlusconi che si pone come sempiterno mediatore.

Chi può opporsi a una simile coalizione e a un simile trend in questo momento? Guardiamo prima a sinistra, nel suo insieme, tra  vari contendenti che non riescono a trovare una sintesi unitaria. Se Liberi e Uguali di Pietro Grasso, Laura Boldrini, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema ha un modesto appeal, molto ideologico e retrò anche se si cerca di nasconderlo, ed è valutato al massimo al 7 per cento, si parla di un’autentica caduta libera del Partito democratico, con contestazioni che ormai vengono a galla anche all’interno del partito. Non c’è una valutazione precisa, ma c’è chi azzarda un risultato al di sotto del 24 per cento e ancora peggio. L’idea quindi di portare Renzi alla sconfitta e poi sostituirlo in corsa al vertice del Pd, ricreando un partito di sinistra-centro, è problematica e non tiene conto dei tanti contraccolpi che si potrebbero verificare di fronte a una sconfitta grave.

Restano a questo punto i 5 Stelle, il partito più forte e l’alfiere dell’antipolitica e del populismo italiano. Qui le aspettative si sprecano, ma non sembra che si possano verificare terremoti che portino i grillini al 40 per cento. La valutazione di primo partito resta sempre legata a un 27-28 per cento in frenata, una quota lontana da una maggioranza solida.

E’ questa analisi, realistica, motivata, che lascia perplessi gli osservatori stranieri e i mercati, sulla possibilità di una governo stabile in Italia. Se si aggiunge a questa analisi abbastanza dettagliata il rifiuto di Paolo Gentiloni di continuare a presiedere un “governo del presidente”, in caso di un Parlamento senza maggioranza, e la dichiarata impossibilità di coalizioni solide, trasversali tra queste forze politiche, ci avviciniamo alla condizione di un’instabilità politica cronica, la peggiore situazione in cui si potrebbe trovare oggi il Paese.

Guardando lo scenario e rifacendoci alle intenzioni dei protagonisti politici, si può dire che, attraverso una serie di operazioni di vari piccoli e medi poteri, asserviti a lobbies straniere, si è raggiunto l’obiettivo degli irresponsabili accusatori della “casta”: la depoliticizzazione della società italiana, dopo la grande svendita dell’apparato produttivo fatta negli anni Novanta.

Gradiremmo sinceramente essere smentiti dai fatti.