Il principale insegnamento che ho tratto dai miei studi universitari nella facoltà di giurisprudenza di Napoli — e la qual cosa non rende merito ai grandi maestri del diritto che ho avuto il privilegio di avere come docenti — è che il diritto non è una scienza esatta, nel senso che la certezza del diritto non esiste. L’obiettivo che mi pongo oggi con i miei studenti è quello di stimolarli il più possibile ad affinare un’autonoma capacità di analisi e quindi di interpretazione della legge, convinto come sono che l’essenza del giurista non consista affatto nella conoscenza della norma astratta ma nella capacità di applicarla nel modo corretto al fatto reale del quale si discetta. Ma da qualche tempo inizio a percepire che tutto ciò sta diventando obsoleto. Mi sono oramai persuaso che dovrei riuscire a insegnare che, assai più della capacità di interpretazione, conta la capacità di comunicare, di fare opera di marketing, anche nel mondo del diritto. 



La recente approvazione da parte del Consiglio dei ministri del ddl “Spazzacorrotti” ne è un chiaro esempio. A prescindere dal contenuto della proposta di legge, non v’è dubbio che l’arguzia comunicativa di aver appiccicato alla proposta un nome così roboante la ricopre di un’aurea trascendente, ponendo coloro che l’hanno concepita automaticamente dalla parte dei “Giusti”.



Certo, non sono mancate autorevoli voci che ne hanno evidenziato i profili di criticità, ma al cittadino poco esperto del diritto resta l’innegabile sensazione che chiunque sollevi perplessità sull’efficacia del testo proposto vada subito ascritto all’elenco dei tutori del malaffare. Sorte toccata perfino allo stesso ministro degli Interni, pur ritenuto il paladino indiscusso della difesa della sicurezza nazionale. In sostanza, non conta la qualità di ciò che si propone di introdurre, conta il modo in cui lo si offre all’opinione pubblica; e in quest’ottica l’individuazione dell’etichetta da appiccicare al prodotto riveste un ruolo decisivo.



Consapevole di cosa potrei essere tacciato, vorrei provare a ragionare sui contenuti, sollevando subito una domanda: quali sarebbero, in concreto, gli effetti prodotti dalla riforma in discussione? Quanti imprenditori condannati per corruzione sarebbero colpiti dalla più simbolica fra le misure proposte, ovvero il fantomatico Daspo? Dati alla mano, il nostro Paese fatica a condannare i corrotti e pertanto la tanto sbandierata innovazione avrebbe, allo stato, una assai scarsa potenziale applicazione. Qualche furbetto del quartierino, un paio di reduci ottantenni di Tangentopoli, poi praticamente nulla più. 

Il sacrosanto obiettivo della lotta alla corruzione richiede inevitabile allora ragionare in termini di sistema, trovando il modo di modificarlo in quei meccanismi che rendono di fatto difficile fare indagini e arrivare a sentenze di condanna per questi reati. Ma occorre anche porsi l’interrogativo: che fine ha fatto il tema della prevenzione? 

Il ddl contiene esclusivamente norme in grado di incidere, poco o molto che sia, sul versante della repressione. Lo stesso agente infiltrato non svolge una funzione di prevenzione vera e propria, agisce su condotte in via di consumazione e non è detto che ne impedisca la realizzazione. La prevenzione, invece, sulla quale negli ultimi anni si era finalmente iniziato a puntare, viene totalmente accantonata.

Il segnale politico che si coglie è che non si va nella direzione del rafforzamento del lavoro svolto in questi ultimi anni dall’Anac di Raffaele Cantone, la cui struttura, creata con il Governo Renzi, necessiterebbe di essere rafforzata, senza incidere sui pur cospicui poteri di cui già dispone, ma che per l’appunto non riesce ad esercitare in pieno proprio per carenze di mezzi e di personale. Mi piacerebbe sapere cosa pensa il Governo del lavoro fatto in questi anni dall’Anac, la cui azione, con tutte le critiche possibili, è andata nella direzione della creazione di presidi che ex ante hanno provato a rendere più difficile la vita ai corruttori e ai corrotti.

Il dato che se ne ricava è che tutto il lavoro portato avanti — dalla legge Severino in poi — non viene affatto coltivato dal Governo in carica. Si assiste, al contrario, a un ritorno al tentativo di rafforzare la repressione, certamente più spendibile sul piano mediatico. La prevenzione infatti per sua natura produce frutti nel lungo periodo. Non risulta facile, come appare intuibile, stabilire quante condotte corruttive si sono evitate grazie alla prevenzione, e si può al più operare comparando periodi storici diversi. Al contrario, è più facile offrire in pasto all’opinione pubblica provvedimenti di riforma che diano la “sensazione” di un cambiamento, senza che però il cambiamento sia un risultato concretamente raggiungibile. 

Il punto vero di riflessione ruota allora intorno a quale sia la politica in tema di lotta alla corruzione che questo Governo propone. Quello che si legge nel “Contratto di Governo” francamente non soddisfa per nulla un lettore appena appena più addottrinato. Il provvedimento di cui stiamo discutendo ci offre una visione un po’ miope del fenomeno corruttivo e soprattutto appare mancante di un vero progetto culturale che lo sostenga.

Credo siano maturi i tempi di archiviare i toni da campagna elettorale per provare a ragionare sulle cose da fare e sul modo in cui farle. Coinvolgendo gli operatori e nell’interesse comune. La sensazione — sinceramente — è che con questo provvedimento si faccia un passo indietro nella lotta alla corruzione, quanto meno sul piano culturale della ricerca della diffusione della cura della prevenzione. L’eccesso di comunicazione, per quanto suadente, reca in sé notevoli rischi: se infatti i corrotti non verranno spazzati via per davvero, l’elettore non farà fatica a rendersene conto. Proprio per questo, è bene allora che continui a cercare di insegnare ai miei studenti la capacità di analisi. Magari loro sì, saranno capaci di coniugare comunicazione e analisi, e allora il Paese sarà comunque salvo.