La figura epica moderna più vicina a Nicola Zingaretti è Jon Snow, il guardiano della notte de “Il trono di spade”.

Come l’eroe della fortunata serie televisiva, egli è di fatto estraneo alle casate del regno in lotta tra di loro per aggiudicarsi il potere. Al contrario, cerca di costruire un’unica grande alleanza capace di contrastare le forze sovrastanti portate dal “grande inverno”, e capisce prima degli altri che bisogna mettere fine alle guerre intestine e dedicarsi ad organizzare la battaglia decisiva contro il vero pericolo, quello che può causare la fine della civiltà tutta e quindi l’affermazione del regno dei morti.



Zingaretti sa che non c’è più tempo da perdere, ma ancora non ha trovato il modo di riunire le varie fazioni impegnate nelle solite sanguinose lotte fratricide. “La cosa più difficile è convincere le persone a lavorare insieme”, ammette candidamente. Infatti il suo tentativo di aprire un confronto libero, che ha voluto testardamente chiamare Piazza Grande, è stato salutato proprio dalla discesa in campo di un nuovo avversario.



Zingaretti, a differenza di Minniti che le ha frequentate un po’ tutte, non ha mai fatto parte delle grandi famiglie che hanno governato per oltre 30 anni il Pd e la sinistra italiana. Sin da ragazzo, la consapevolezza di non essere un predestinato lo ha portato a lavorare molto e competere poco. Anzi, i più informati ricordano distintamente le volte in cui ha sorpreso tutti con una rinuncia invece che con un’auto-candidatura. Dopo una lunga esperienza internazionale tra i giovani socialisti europei — che rendono oggi Zingaretti uno dei pochi politici italiani con ottime relazioni internazionali e un’approfondita conoscenza dei dossier di mezzo mondo — ha abbracciato la strada del bravo amministratore locale, prima alla Provincia di Roma, poi alla Regione Lazio, riconquistata per ben due volte. Con il considerevole vantaggio di restare fuori dalle risse e dalle sfide infinite che hanno segnato i 10 anni della grande crisi, il decennio 2008-2018.



Lui parte nelle sue riflessioni quasi sempre dal medesimo, cruciale, punto: come è stato possibile che in un decennio il consenso della sinistra democratica si sia più che dimezzato, passando dagli oltre 12 milioni di voti del 2008 agli attuali, scarsi, 6?

Zingaretti è cosciente che solo un’analisi nuda e cruda delle scelte compiute nel corso di questo decennio possa aiutare a trovare la soluzione. Per questo è così restio ad addossare tutta le colpe solo a Matteo Renzi e non riduce tutto alla disastrosa condotta che con l’accoppiata referendum-elezioni ha messo al tappeto il Pd.

In questi 10 anni il Pd si è prestato — chiamato da un ripetuto appello alla responsabilità, pervenuto in particolare dal presidente della Repubblica — a guidare il paese lungo i difficili passaggi della crisi, tra politiche di austerità da mitigare, crescita dei populismi da fronteggiare e la fine di una certa idea costruttiva di Europa.

Zingaretti lo dice apertamente: “Renzi ha rappresentato — con il suo dinamismo e il risultato del 41% alle europee del 2014 — una illusione”. Ma, vorrebbe aggiungere, anche una inutile scorciatoia.

In questi anni, le politiche di austerità hanno riaperto le ferite più profonde di questo paese: il divario tra nord e sud, le sperequazioni tra milioni di poveri da una parte e poche migliaia di ricchi dall’altra, il contrasto tra le periferie senza manutenzione e i centri urbani sempre più sfavillanti, la crescente distanza tra la scuola pubblica abbandonata a se stessa e un’offerta formativa privata fatta di master e trasferimenti accessibili a quei pochi fortunati che se li possono permettere.

Insomma, la crisi ha creato problemi a tutti, ma naturalmente soprattutto ai più deboli.

Ricondurre il Pd verso il proprio ruolo di rappresentanza di questi precisi interessi non è il sintomo di un nostalgico bisogno di rinverdire un passato glorioso, quanto piuttosto una salutare immersione nel presente: quello reale, che non ha nulla a che vedere con le élite che duellano di continuo sui social network dando di sé uno spettacolo orribile.

Zingaretti ha la pretesa di rilanciare un partito che appare storicamente sconfitto e per questo profondamente diviso. Tante tribù riunite in accampamenti più o meno isolati, pronte alla battaglia più cruenta o agli accordi più imprevedibili. Il suo obiettivo è obbligare questi capi tribù a togliere le tende e a rimettersi in cammino, tutti insieme. Solo in questo modo è possibile passare sopra le rotture del passato. La lezione di questi anni impone un ripensamento del partito in una duplice chiave: da una parte recuperare il ritardo tecnologico e lavorare per la sua trasformazione in una nuova forma organizzativa ancorata ad una solida piattaforma digitale, dall’altra ridare “fisicità” alla presenza sul territorio.  

Questo è il punto più delicato, perché richiede molto tempo e altrettanto lavoro. Ma è anche la fatica più necessaria perché è qui che si annida il male, il cancro che ha trasformato un partito di massa in un partito di notabili e cacicchi, ostile verso gli altri, preda di quelle faide che ad esempio, in molte zone e soprattutto al sud, hanno fatto del tesseramento un fatto “privato”, mentre dovrebbe essere lo strumento principale per immettere nel partito forze, idee e facce fresche.

Bisogna avere coraggio su questi due punti: non temere la forza della Rete e rifondare la presenza sul territorio attraverso strutture qualificate e aperte alla società, in particolare ai giovani.

Come Jon Snow, Zingaretti non ha molto tempo. Deve prima vincere le battaglie interne sapendo che i nemici di oggi dovranno diventare amici e alleati già domani, e poi dovrà sfidare a viso aperto le forze arrivate dal nord, ormai già predominanti.

Come sempre servirà coraggio, abilità nel combattimento e anche molte idee nuove. Tutto mettendo fine agli incomprensibili odi, alle abitudini nefaste, alla logica dei tradimenti. In molti si chiedono se un ragazzone con il sorriso pacato come lui potrà mai farcela. Certo, se ad un certo punto, arrivasse in suo aiuto qualche drago (diciamo la verità, a lui di “Draghi” ne basterebbe uno!) e magari anche una regina volitiva, la storia potrebbe anche in questo caso, presumibilmente, essere coronata da un lieto fine.