Il caso Alitalia è solo l’ultimo di una lunga serie di scontri. Ed è solo l’ultimo motivo per cui Giovanni Tria potrebbe dimettersi. In tutta l’intricata partita della manovra finanziaria è il ministro dell’Economia il punto critico. Per Di Maio e Salvini un ostacolo, per i mercati e le istituzioni (dal Quirinale alla Bce) l’estremo baluardo allo sconquasso dei conti pubblici italiani.
Sul rientro della mano pubblica in Alitalia i due vicepremier sono stati categorici: il loro richiamo a che il titolare di via XX Settembre si attenga al rigoroso rispetto del contratto di governo vale per la compagnia di bandiera come per tutti i nodi ancora da sciogliere: reddito di cittadinanza, revisione della legge Fornero sulle pensioni, anticipo della flat tax.
Lo scontro fra Tria e il resto del governo è cominciato quasi subito, ed è esploso in modo evidente già nel cuore dell’estate. Per almeno altre due volte, a metà settembre e poi alla fine del mese, Tria è stato sull’orlo delle dimissioni, sempre perché il suo approccio realista e consapevole della delicatezza del quadro di finanza pubblica è parso d’ostacolo alla concretizzazione delle onerose promesse elettorali del governo gialloverde.
Se le dimissioni di Tria non sono ancora arrivate è perché invece di migliorare le cose, le peggiorerebbero per tutti. Tanto i suoi sostenitori, quanto i detrattori concordano che se il ministro gettasse la spugna, il messaggio ai mercati sarebbe devastante, e la speculazione troverebbe nuovo propellente. Anche giornali autorevoli come Il Sole 24 Ore hanno scritto, senza smentita, di autorevoli pressioni dal Quirinale per convincere Tria a restare. Negli ultimi giorni il ministro viene descritto come esasperato, amareggiato e non sereno. E sui giornali si legge di un discreto lavorio degli stati maggiori di Lega e 5 Stelle alla ricerca di un sostituto per un rimpasto che, al massimo a Natale, potrebbe coinvolgere anche l’altro ministro tecnico non schierato, il titolare degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi.
Vista con gli occhi del governo l’opzione rimpasto presenta insieme pro e contro. Di sicuro la compagine governativa guadagnerebbe in compattezza dalla sostituzione di Tria e Moavero con due personaggi più docili e allineati con la narrazione gialloverde. Non è detto però che questo possa, alla lunga, costituire un vantaggio. Il messaggio che verrebbe trasmesso all’Europa ed ai mercati internazionali sarebbe foriero di ulteriore instabilità, come se non ce ne fosse ancora abbastanza intorno alla politica economica italiana.
Da qui al varo della manovra economica il percorso si presentata ancora accidentato. Lo stesso premier Conte ha ammesso che sul versante fiscale ancora c’è molto da lavorare. Come una spada di Damocle pende poi il giudizio dell’Europa, che entro oggi attende di conoscere le grandi linee della legge di bilancio (che in parlamento andrà presentata entro il 20 ottobre). Ma il giudizio più atteso (e più temuto) è quello delle agenzie di rating. Due sentenze (il 26 ottobre Standard & Poor’s, il 31 Moody’s) che potrebbero complicare il quadro assai più della minaccia europea di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo. Un doppio downgrading (che porterebbe i nostri titoli di Stato a livello di junk, spazzatura) sembra realisticamente da escludere, ma già essere collocati sul gradino prima del baratro sarebbe un grosso guaio. Ci sono esperti che non escludono un ulteriore balzo in su dello spread.
Trovare un accettabile modus vivendi con Tria potrebbe essere per Salvini e Di Maio il male minore. A patto però che si allontani da lui l’ombra sinistra di Paolo Savona, che a volte è sembrato essere il vero dominus della politica economica del governo. Un volto rassicurante, insieme ad un approccio graduale che non metta del tutto a repentaglio l’equilibrio (già precario) dei conti pubblici potrebbe alla fine garantire la prosecuzione della navigazione di Giuseppe Conte e del suo governo.