Caro direttore,
da quando si è cominciato a discutere della legge di bilancio titoli e commenti della stampa più influente assomigliano, ogni giorno di più, a un bollettino di guerra, alla cronaca a puntate di una disfatta storica.
Ad allinearli uno dopo l’altro si rischia di restare attoniti: Tria assediato; le dimissioni di Tria; anzi no, resta sulla tolda, ma solo per l’intervento di Mattarella; Tria rimane per amor di patria, ma è sconfitto; una manovra sull’orlo dell’abisso; al 2,4 l’Italia rischia di essere estromessa dall’Europa; la bocciatura dei mercati, lo spread si impenna e la borsa crolla; pensioni e stipendi a rischio; l’Europa ha detto no; un deficit senza investimenti destinato ad essere interamente assorbito dalla crescita degli interessi sul debito; Bankitalia dice no; si teme un prossimo declassamento dell’Italia ad opera delle agenzie di rating; i titoli del debito pubblico potrebbero ridursi a junk bond; pagheranno i più poveri; la disoccupazione monterà, i mutui schizzeranno e risparmio e pensioni varranno la metà; una manovra cinicamente elettoralistica che impoverisce il popolo; eccetera.
La manovra si può condividere o disapprovare, anche radicalmente. Ma il problema non è questo. Il problema è se realmente questa manovra giustifichi un simile allarme e quali, diversamente, possono essere le ragioni di reazioni così virulente.
Due sono le leve principali, di cui questo quadro catastrofico si avvale: l’oggettiva insostenibilità economica del rapporto deficit/Pil e, in aggiunta, la destinazione recessiva del disavanzo con esso creato. E vanno, perciò, considerate nell’ordine.
Il rapporto deficit/Pil è stato programmato al 2,4. Ma questo rapporto è proprio così catastrofico? Nel 2014 era al 2,9, nel 2015 al 2,6, nel 2016 al 2,5. Nel 2017 si è attestato al 2,3, mentre, calcolandola sull’intera scorsa legislatura, la spesa in deficit sembra sia giunta al 2,6. Di più, questa volta, a differenza di prima, questo sforamento si dà in un contesto economico non marginalmente migliore: il Pil è cresciuto più che in passato e, nonostante la congiuntura internazionale non rassicurante, le prospettive economiche dell’Italia sembra, allo stato, rimangano un po’ migliori di quelle degli anni precedenti: si prevede, sì, che il Pil torni a scendere più o meno lievemente, ma, questa volta, in un contesto di calo abbastanza generalizzato, anche se in misura diseguale, del Pil degli altri paesi.
E allora come mai il disastro? Qualcosa di nuovo rispetto a prima c’è. Ed è che il precedente governo si era impegnato con l’Europa ad una riduzione del rapporto deficit/Pil. E che così, portando tale rapporto al 2,4, si disattende tale impegno e – si dice – si mina la credibilità dell’Italia nello scenario internazionale.
Ma se così è, occorre, allora, chiamare le cose con il loro nome. Occorre dire, precisamente, che un tal rapporto deficit/Pil non è affatto economicamente insostenibile, o — se si vuole — non lo è affatto di più di quanto non lo fossero quelli del quinquennio precedente: nessuno può seriamente sostenere che un’economia come quella italiana rischi il default solo per qualche decimale in più di deficit. E occorre dire, piuttosto, che il vero e solo problema di questa legge di bilancio è che lo sforamento da essa programmato disattende un impegno europeo. Solo che questa, all’evidenza, è una cosa del tutto diversa e va rappresentata per quella che è: questa sembra una manovra politicamente inopportuna, a misura che attizza uno scontro con le istituzioni dell’Unione che in molti proprio non vorrebbero. Punto.
Si aggiunge, a rincalzo ma con non minore scandalo, che un tal deficit è comunque disastroso poiché è destinato principalmente a finanziare spesa corrente (pensioni e reddito di cittadinanza) e solo in misura significativamente inferiore investimenti. Da qui la giusta rivolta dei mercati e l’indignazione dell’Unione, del Fmi e degli economisti di grido.
Sarebbe facile notare che anche gli 80 euro in busta paga del governo Renzi, per un impegno complessivo di 9 miliardi (dunque, pari al costo dell’attuale reddito di cittadinanza), non esibivano affatto una cifra diversa. Eppure quella volta i mercati rimasero tranquilli e gli economisti si limitarono a storcere un po’ il muso (ma non poi tanto). Ma la polemica qui non serve.
Giova chiedersi, piuttosto, se le cose stiano proprio così.
Tutte le manovre anti-recessive di stampo keynesiano (le sole possibili in un contesto ove non si può agire sulla leva monetaria) consistono, senza distinzione, in interventi sulla domanda. Lo sono quelle che puntano sugli investimenti pubblici, facendo conto che la domanda aggiuntiva con essi creata dallo Stato accresca l’occupazione, che la maggior occupazione faccia lievitare i consumi e che questi, a loro volta, producano nuova occupazione e maggiori consumi. Ma esattamente al medesimo paradigma rispondono anche gli interventi intesi a finanziare direttamente i consumi: se crescono i consumi, il sistema delle imprese dovrà accrescere le produzioni e per questo dovrà incrementare l’occupazione, il che accrescerà la massa salariale che, traducendosi in maggiore domanda, opererà ricorsivamente su produzioni e occupazione, ecc.
Mai nessuno ha provato a calcolare seriamente quale di queste due tecniche presenti, alla fine, il saldo migliore. Probabilmente perché la preferibilità di quella o questa di tali due tecniche dipende, alla fine, da ragioni che si collocano, principalmente, nella sfera della politica. Certo, gli investimenti pubblici migliorano le strutture del paese, ma il finanziamento della domanda può essere più selettivo: e non è scontato che il soccorso a 5 milioni di poveri sia necessariamente un obbiettivo di minor peso. In fondo, lo slogan del New Deal, con cui Roosevelt fronteggiò e superò la Grande crisi, suonava così: “lo Stato assuma operai per scavare buche ed altri operai per colmarle”.
Tutto questo è, a dir poco, imbarazzante: queste cose sono semplicemente ovvie, ma pochi sembrano ricordarle e, comunque, quasi nessuno le dice, neanche la maggioranza giallo-verde che, sempre più, somiglia ad un pugile suonato dagli uppercut dell’avversario.
Ma se così è, allora, occorre ancora una volta chiamare le cose con il loro nome, rappresentarle per quello che sono. E questo deve far dire che questa (facendo astrazione dalle contraddizioni, dalle lacune e dalle ingenuità che sicuramente presenta: ché questo sarebbe già un altro discorso) non è affatto una manovra, di per sé, economicamente insensata. E’, piuttosto, una manovra che — seppur molto contraddittoriamente — sembra rispondere ad un senso che a molti non va affatto bene. Ci può stare. Ma questa è tutt’altra cosa.
E allora perché mai una tal radicalità, che lascia sorpresi ed attoniti? Non basta il giudizio che non valga la pena turbare i rapporti con le istituzioni europee solo per abbreviare i tempi di accesso alle prestazioni pensionistiche o per alleggerire appena un po’ le condizioni di povertà di una parte della popolazione. Il fatto è, verosimilmente, che simili obbiettivi contraddicono le politiche economiche ordo-liberali propugnate dalla Ue e, soprattutto, che essi vengono percepiti come una sorta di minaccia all’assetto delle relazioni sociali che tali politiche sottendono, alla disposizione de poteri che vi corrisponde e all’operatività degli establishment che vi prosperano. Timori spropositati? Certo. Verrebbe da dire: tanto rumore per nulla. Se non fosse che questo sembra un tempo di cambiamenti della società, nel quale il problema del controllo sociale diventa cruciale.
Come andrà a finire ancora non si sa: terranno quelli che ormai vengon chiamati i “due compari” o mercati e istituzioni europee li costringeranno a più miti consigli? Una cosa, però, sembra già abbastanza chiara, e deve essere detta: comunque vada, questa strategia politica di “guerra totale” sembra, a dir poco, miope.
Tanto che a cedere siano i mercati e l’Europa, tanto che a farlo — come è ben più probabile — sia il governo giallo-verde, il risultato non cambierà granché. Un tonfo dell’attuale governo sicuramente non riporterà i cittadini all’ovile, per un’improvvisa resipiscenza o un’incontenibile paura, ma semplicemente ne accrescerà il rancore. Tutto sembra dire che la Lega monetizzerà il consenso conquistato, raddoppiando verosimilmente l’esito del 2018, che il M5s, nella migliore delle ipotesi, si attesterà a metà tra le percentuali del 2013 e quelle del 2018, e che, però, né il Pd né Forza Italia se ne avvantaggeranno in modo significativo o, comunque, in misura tale da potere ambire al governo del paese, mentre ad aumentare sarà solo l’astensione. E dopo?
E ancor più fosco si mostra lo scenario delle elezioni europee: senza il timore delle conseguenze di un voto che esponga solo l’Italia, il rancore verso le istituzioni dell’Unione, che saranno percepite come le principali responsabili dell’oltraggio al voto popolare del 2018, si sentirà libero di manifestarsi senza remore.
Questo dicono i sondaggi, ma questo dicono anche una lettura disincantata del cambiamento sociale in atto e, ancor prima, un elementare senso politico. Ma come si fa a non vedere tutto questo? Verrebbe da dire di questa montante miopia che “il Signore fa ciechi coloro che vuol perdere”.
E allora? si diventa tutti giallo-verdi? No, si pensa un’opposizione diversa, che apra una nuova prospettiva.
Piaccia o no, l’unica strategia politica, che sembra oggi praticabile in Italia, è quella che immagina una rottura dello “sciagurato” accordo Lega-M5s, promosso — va ricordato — dal diktat di Renzi, e la formazione di una vasta area di sinistra ragionevole e popolare (non populista), che unisca M5s e Pd (entrambi appropriatamente emendati), e i molti e dispersi “cespugli” che crescono loro attorno, nella prospettiva, sposata senza riserve, del contrasto alle povertà, di un lavoro per i giovani che meriti questo nome e di un’esistenza dignitosa per tutti.
Difficile? Difficilissimo. Non piacerà a molti? Sì, e si può anche capirlo. Ma qualcuno dica quale mai può essere un’alternativa seriamente praticabile per quanti non condividono questo andazzo delle cose, e non la fallace illusione di chi continua a immaginare che le cose siano come vorrebbe che fossero (o, più spesso, che restassero). E poi, alla fine, in Spagna Psoe e Podemos lo hanno appena fatto: perché in Italia no?
E lo stesso è a dire per le prossime elezioni europee. Chiunque può capire che il miraggio “illuminato” di una santa alleanza contro i sovranismi che unisca tutti indistintamente, da Macron a Tsipras, non sembra proprio destinato a sedurre gli elettori: si direbbe senz’anima, se non fosse che sottende un’anima solo conservativa, uno spirito che non ha sguardo per il futuro e che perciò appare senza futuro. Mentre l’unica strategia realistica appare quella di una proposta progressiva, che muova dall’idea che tra la costruzione europea così com’è e il suo annichilimento ci sono i grandi spazi che in un altro tempo si erano immaginati e che nessuno ha più da decenni esplorato.