Allora: Matteo Salvini dice di non essere scemo e Luigi Di Maio di non essere bugiardo. E quindi l’intelligente e il veritiero si sono seduti allo stesso tavolo e hanno raggiunto l’accordo. C’è voluto un po’ ma alla fine, come avrebbe detto il vecchio Umberto Bossi, è stata “trovata la quadra” in un vertice a tre con il capo del governo Giuseppe Conte. Dalla manovra spariscono i riferimenti allo scudo fiscale “penale” e ai patrimoni custoditi all’estero per i quali non ci saranno sanatorie. “Finalmente si chiudono due o tre giorni surreali”, dice Salvini nella conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri convocato in fretta e furia dal premier per chiudere la frattura che si era aperta tra i due vicepremier.



Chi esce vincitore è senza dubbio Di Maio, che aveva assolutamente bisogno di questo risultato per comparire senza macchia e senza paura alla kermesse grillina del Circo Massimo, dove la vittoriosa conferenza stampa di Palazzo Chigi è stata trasmessa in diretta. In mancanza di un balcone su cui esultare, i 5 Stelle si sono fatti bastare i maxischermi. Salvini ha ceduto nel braccio di ferro ed è la prima volta, in questi mesi di governo gialloverde, che ciò accade. Finora la Lega aveva sempre avuto la meglio nel confronto politico e mediatico, stavolta ha mollato. Alla vigilia si era parlato di un contraccambio chiesto ai grillini, cioè di ritirare la valanga di emendamenti sul decreto sicurezza presentati nei giorni scorsi “nemmeno fossero all’opposizione”, aveva commentato Salvini. Oppure di espungere la vergognosa sanatoria sulle case abusive di Ischia crollate con il terremoto e che Di Maio vorrebbe ricostruire a spese delle casse pubbliche.



Invece ieri non si è fatto alcun cenno pubblico a contropartite di sorta. Il patto c’è, riguarda il decreto sicurezza e non Ischia o le assicurazioni auto in picchiata al Sud e in rialzo al Nord; esso però è rimasto nelle retrovie per non guastare la festa al leader grillino. Il condono si ridimensiona aprendo tuttavia una falla nel bilancio statale visto che il deficit rimane al 2,4%. Premier e vice si sono premurati di precisare che “non ci sarà una patrimoniale”: è il sospetto che avevano tutti perché ormai si è raschiato ogni fondo di barile. E non ci saranno nemmeno rivendicazioni antieuropeiste, fuoriuscite dall’euro o dall’Unione. La parola d’ordine è dialogo e confronto con i partner.



Restano però aperte alcune questioni. Bisogna capire se, al di là dell’accordo che comunque si sarebbe trovato, si è ricomposta la rottura personale tra Di Maio e Salvini. Questo governo, più che sul contratto, si fonda sulla lealtà tra i due principali contraenti che per la prima volta si è seriamente incrinata quando il ministro del Lavoro è andato da Bruno Vespa ad agitare lo spettro della “manina” accusando implicitamente l’alleato di aver truccato le carte. Domani si vedrà la reazione dei mercati, anche se pare che l’effetto del declassamento di Moody’s sia già stato scontato. E poi va valutata la risposta della Commissione Ue alla sostanziale alzata di spalle fatta del governo italiano alla lettera di richiamo. Le belle parole sul dialogo e la non uscita dall’euro non incantano Bruxelles, che avrebbe preferito un taglio di quel 2,4 di rapporto tra deficit e Pil rischiosissimo. Ma questa battaglia non si chiuderà con un armistizio a Palazzo Chigi: continuerà per altri sette mesi fino alle elezioni europee.