Dalla riunione a Palazzo Chigi di sabato esce un governo in cui è ormai spento il rapporto fiduciario tra Di Maio e Salvini e con lo stesso Conte che secondo il capo del M5s avrebbe sintetizzato il testo in Consiglio dei ministri tacendo la parte sui capitali all’estero e la non punibilità penale. C’è da scegliere tra premier e vicepremier chi sia irresponsabile o mentitore. 



Sembra paradossale, ma la debolezza delle opposizioni è tale da indebolire l’alleanza di governo. Il dato che Forza Italia (al di sotto del 10 per cento) e il Pd (al di sotto del 20 per cento) non siano più “partiti guida” della dialettica politica mentre l’alleanza di governo registra un consenso che non ha precedenti nell’Italia repubblicana si è tradotto nel fatto che i partiti al potere non si sentono “sotto assedio”, ma “padroni del campo”. E quindi sempre più abbiamo lo scenario di una competizione-resa dei conti per il primato.



Se fino allo scontro-intesa sul Def si ipotizzava addirittura un’alleanza elettorale tra Lega e M5s, in questi giorni si sono moltiplicati i segni di contrapposizione con l’obiettivo anche se non immediato (ma nemmeno rinviato sine die) di Di Maio e Salvini di conquistare la guida di Palazzo Chigi indipendentemente l’uno dall’altro, diventando protagonisti di un nuovo bipolarismo post Pd-Berlusconi.

Oggi sembra comunque scontato che il governo vada avanti almeno fino alla verifica dei rapporti di forza reali e della definizione dei nuovi vertici di Bruxelles con le elezioni europee di maggio, salvo — come già detto dallo stesso Conte — un maremoto nei mercati finanziari.



Di Maio e Salvini hanno quindi cercato il compromesso, ma già preoccupandosi di avere pronto un “secondo forno”. Il più evidente è quello della Lega, come esplicitato dalla sortita polemica del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, sulla situazione critica del vertice di Forza Italia. In caso di rottura con i grillini, la Lega non pensa certo a un ritorno all’ovile da Berlusconi con la coda tra le gambe. Come ha recentemente sottolineato Giorgetti occorre “un nuovo centro-destra”. Il piano B leghista è ormai chiaro: un’aggregazione politico-elettorale con Salvini candidato premier sostenuto da un lato da “Fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni e dall’altro da buona parte dei parlamentari e amministratori locali di Forza Italia che solo alleati con Salvini possono sopravvivere. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato di essere incerto a candidarsi alle europee.

Il leader della Lega si rende conto che la contraddizione tra politica nazionale e locale non può durare a lungo e a medio termine il soggetto nazionale deve coincidere con il retroterra territoriale.

Non tanto meno esplicito è stato Di Maio quando già nelle prime tensioni della iniziale redazione del Def aveva minacciato di “approvare la finanziaria con il Pd”.

Il “secondo forno” con il Nazareno è stato infatti tenuto in vita dal M5s con le prese di distanza da Salvini, dal caso Diciotti a quello delle mense di Lodi e a sua volta il Pd ha identificato il “pericolo numero uno” nel leader della Lega. E’ vero che ufficialmente in vista del congresso solo il candidato di Emiliano, Boccia, auspica l’alleanza con i 5 Stelle e che Zingaretti dopo averla esplicitamente sostenuta ha poi ammorbidito dicendo che guarda prioritariamente solo al loro elettorato. Ma l’avversione ribadita da Renzi alla Leopolda non sembra irriducibile, nel senso che nella fase finale della legislatura anche lui aveva pensato a un possibile accordo post-elettorale con i 5 Stelle sguinzagliando Richetti e Giachetti alla loro rincorsa a cominciare dai vitalizi. Ha poi bloccato Martina irritato dal veto posto da Di Maio all’ingresso della Boschi e di Lotti nel governo. Del resto anche gli intellettuali che come Michele Salvati si dicono contrari all’accordo, quando lo motivano liquidando trent’anni di vita democratica – dall’inizio degli anni sessanta all’inizio degli anni novanta (da Fanfani con Nenni e Saragat a Moro con La Malfa e Guido Carli fino a Craxi con Andreotti e Spadolini) – come un periodo infame con governanti  di “vista corta”, solo “inefficienza” e “corruzione”, dimostrano di condividere luoghi comuni dell’antipolitica grillina.

E’ del resto evidente che in un quadro tripolare in cui il Pd è la terza forza di gran lunga più debole, l’unica concreta prospettiva di ritorno al governo per il Nazareno è l’alleanza con il M5s. Al di là delle dichiarazioni propagandistiche su un vittorioso fronte popolare-antipopulista alle elezioni europee del maggio 2019, i dirigenti del Pd — tutte le sue correnti — sanno benissimo che il raddoppio dei voti non è a portata di mano e che, anzi, si tratta di bloccare il trend in discesa.

Oggi il Pd rischia di spaccarsi al congresso alla vigilia delle europee, come si è spaccato l’anno scorso in vista delle politiche: chi vince vuole azzerare l’avversario selezionando le liste e chi perde preferisce l’avventura della scissione. Un rientro in area di governo sembra l’unico modo per responsabilizzare i leader e dare materia per trovare un accordo. Ed è appunto nella speranza di una prossima rottura tra Lega e M5s che il congresso del Pd è ancora in sospeso.

C’è poi da tener presente che il successore di Mattarella sarà eletto da questo Parlamento e tutti “i padri nobili” del Pd che puntano al Quirinale premono per l’alleanza con il M5s. Non solo, ma il punto debole di Salvini è che difficilmente chi egli chiama “qualche colle di Roma” — e cioè il Quirinale — gli concederà lo scioglimento delle Camere. Esclusa la Lega, tutto il resto del Parlamento è infatti contro le elezioni anticipate e un auspicio presidenziale per una maggioranza che le eviti non sarebbe inascoltato. In particolare nel Pd.