Ha già fatto fuori Forza Italia, ha fatto cadere le roccaforti alpine del centrosinistra, si prepara a fare un boccone anche dei Fratelli d’Italia e chissà se Matteo Salvini conta i giorni in cui gli si consegneranno anche i 5 Stelle. Un passo alla volta, senza fretta, anche perché ci pensano le circostanze a fargli dei regali forse inaspettati. Come quello che potrebbe arrivargli il 10 novembre dai giudici di Roma che pronunceranno la sentenza di primo grado al processo per le nomine in Campidoglio. Se il sindaco di Roma Virginia Raggi fosse condannata, si dovrebbe dimettere. E il leader leghista è pronto a sbarcare in forze anche nella capitale candidando a sindaco una donna che viene dalla destra: i nomi che girano sono Giulia Bongiorno, ministro ed ex deputata di An, e Barbara Saltamartini, oggi leghista con un passato nel Fronte della gioventù e nel Pdl.



Il destino della Raggi è solo un tassello del caotico puzzle in cui si trovano oggi i grillini. Luigi Di Maio segue le orme del collega Danilo Toninelli nell’infilare gaffe, l’ultima è l’improvvida uscita su Mario Draghi che gli è stata rimproverata perfino da Marco Travaglio. Ma c’è anche la clamorosa retromarcia sul Tap pugliese, che in campagna elettorale era un ecomostro da fermare a tutti i costi e che adesso, fatti appunto i conti dei costi, è un boccone amaro che si deve mangiare. Penali insostenibili, dice Di Maio, costringono a proseguire nei lavori. Il suo predecessore al governo, Carlo Calenda, invece nega che esistano sanzioni legate alla mancata prosecuzione del gasdotto sotto l’Adriatico. 



Resta il fatto che l’immagine dei grillini al governo si offusca ogni giorno che passa. Aggiungiamo le difficoltà sulla legge di bilancio, con il gruppo di parlamentari pentastellati che non vuole votare il decreto fiscale e con l’altro gruppo che non intende ritirare gli emendamenti al decreto sicurezza. La fronda di Roberto Fico e l’ombra di Alessandro Di Battista si allungano sul povero Di Maio che si trova nel momento più difficile della sua breve parabola politica. Di Maio ha bisogno di Salvini perché, se il governo cadesse, la responsabilità cadrebbe sulla sua incompetenza e difficilmente i duri del movimento gli concederebbero la deroga per tornare una terza volta in Parlamento.



Ma anche Salvini ha bisogno di Di Maio. La strategia del leader leghista di cuocere a fuoco lento gli avversari ha bisogno di tempo. Il ministro dell’Interno non ha fretta di passare all’incasso. E soprattutto non ha alcun interesse che il tenero Di Maio possa essere sostituito da Di Battista, il grillino che ha puntato tutto sul fallimento del compagno di partito per essere acclamato come salvatore della bandiera a 5 Stelle. Salvini e Giorgetti hanno puntellato il ministro del Lavoro anche nel momento del voltafaccia, quando Di Maio ha evocato la “manina” per mascherare l’incredibile pasticcio sul condono. 

Hanno ingoiato il rospo perché sapevano che Di Maio avrebbe mollato sulla Tap e probabilmente dovrà farlo anche sull’alta velocità ferroviaria. Così la Lega si presenterà come la forza politica degli investimenti pubblici mentre il M5s resterà il vessillifero dell’assistenzialismo. Le ruspe, reali e metaforiche, sono lo strumento dell’azione politica di Salvini. Contro l’Europa, gli assassini di Desirée, le periferie di Roma, gli ex alleati del centrodestra, ma anche per ricostruire i ponti e le linee ferroviarie veloci. Ma non contro Di Maio.