“Le funivie in città: il futuro della mobilità” è il titolo di un confortante post sul blog di Beppe Grillo che – a un occhio, per carità, malevolo, che quindi va messo al bando! – può suonare grottesco in giornate come queste, in cui il Movimento 5 Stelle sta davvero diventando due movimenti da 2 stelle e mezzo ciascuno, per come si sta spaccando sulla politica delle infrastrutture.



Il post decanta la soluzione delle funivie cittadine, esordendo col dire che “la pianificazione dei trasporti nelle città di tutto il mondo può essere una sfida”. E via magnificando appunto le soluzioni a filo adottate da città come Londra, Singapore, La Paz, Coblenza e Bogotà. “Benvenuti quindi nel prossimo sistema di mobilità, perché il cielo non è più un limite!”, recita il post, anonimo ma riconducibile al capocomico.



Che sia un cambio di linea politica? Che il ponte Morandi stia per essere sorprendentemente sostituito da un ardito insieme di funivie? Non fa ridere, va detto, come calembour. E infatti il post dice sul serio. Si vedrà.  Nel frattempo, il Governo giallo-verde, dopo aver invano tentato di bloccare il gasdotto Tap a Meledugno in Puglia, sta oggi provando a bloccare la Tav Torino-Lione. E lo starebbe per fare a valle di quei controlli del bilancio costi-benefici – metodo sacrosanto – annunciati dal ministro Toninelli, del cui esito però non si ha assoluta chiarezza, a oggi. E il bello è che non gli si può contestare un bel nulla, ai grillini: “Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia, ci impegniamo a sospendere i lavori esecutivi e ridiscuterne integralmente il progetto”, c’è scritto nel contratto di governo, che dunque la maggioranza giallo-verde sta semplicemente attuando. Il fatto è che però che questa “ridiscussione” non è risuonata forte e chiara nel Paese, semmai si può dire che sia appena iniziata, ma l’orientamento governativo sembra già chiaro e forte verso il “no”, come sarebbe stato anche per il Tap – da fermare – se non fosse intervenuta la ragion pratica, la necessità cioè di evitare penali da 20 miliardi di euro.



Ragion pratica che ha spinto, oblativamente, il mite premier Giuseppe Conte ad assumersi la responsabilità della delusione post-elettorale degli elettori grillini pugliesi anti-Tap per togliere dal mondo i peccati di Di Maio. Il tutto mentre l’Istat certifica, con la freddezza di un “coroner”, che nel terzo trimestre del 2018 la crescita economica è stata di appena lo 0,8%, il che – schiacciando al +1% le previsioni su base annua – rende ancor meno verosimile quel target del +1,5% di crescita che la Legge di bilancio 2019 si pone di conseguire per legittimare agli occhi dell’Europa (peraltro a oggi in modo del tutto inefficace) la scelta di elevare al 2,4% il rapporto deficit/Pil. Ebbene, cosa c’è di più “sviluppante” degli investimenti nelle grandi infrastrutture? E dunque perché non farle, o almeno completare quelle già fatte? E poi perché il tunnel del Brennero sì e quello per Lione no?

Dietro queste domande – e le polemiche con cui vengono agitate – c’è chiaramente una lacerazione ingravescente nell’opinione pubblica pentastellata, sempre meno d’accordo con la linea pragmatica di Di Maio e sempre più nostalgica verso l’integralismo duro e puro dell’esule volontario Di Battista e del suo profeta romano, Fico. Come se l’anima gruppettara, oppositiva ed extra-governativa che ha raccolto attorno a Grillo tanti consensi stesse oggi riemergendo e sormontando quella pragmatica e governativa incarnata da Di Maio: che però il vicepresidente del Consiglio e sembra volerlo fare per tutta la legislatura.

Il fatto è che, secondo l’istituto Cattaneo, circa 2 milioni di voti grillini su 11 erano in fuga dal Pd, per ottenere con questa migrazione l’attuazione delle politiche di lotta, e non di governo, promesse in campagna elettorale da Di Maio. Politiche di lotta che paiono oggettivamente distanti anni luce da molte, troppe scelte di questo governo, promosse da Salvini ma accettate da Di Maio in nome di una lealtà troppo spinta per i gusti della base grillina, spinta fino al punto di tradire appunto il mandato elettorale.

E non basta. Se su “quota 100” i grillini in prevalenza convergono, dissentono invece sia dalla fla tax che dal  condono, che infatti hanno ottenuto – manina o non manina! – che venisse se non cancellato ridimensionato rispetto ai desiderata leghisti. D’accordo, ma è stato pur sempre un compromesso, e il dna di un partito d’opposizione com’è stato fino al 4 marzo scorso il Movimento Cinquestelle non sopporta le mediazioni.

Secondo i più critici, si diceva, il vero limite dei pentastellati risiederebbe nell’incapacità tecnica di costruire argomentazioni solide sulla base delle quali attuare i punti più controversi della loro politica originaria. In soldoni: se si vuol bloccare la Gronda, si può; come si può sospendere la Tav, penali permettendo. Ma occorre rispondere, con indiscutibile solidità tecnica, alle domande sulla viabilità e l’efficienza logistica dei collegamenti multimodali tra Genova e il retroterra che tutti gli esperti di tutte le realtà coinvolte in queste scelte stanno già formulando contro un “No”. E chi le trova, le risposte? Con quale credibilità?

La cultura del sospetto talebano contro i conflitti d’interesse porta nel cuore della mentalità grillina la granitica certezza del fatto che il retroterra di relazioni all’attivo di qualunque bravo professionista lo renda inadatto a ricoprire qualunque incarico pubblico perché quelle relazioni lo caricano di interessi conflittuali. Peccato che quest’approccio conduce a una conclusione paradossale: quelli bravi lo sono perché hanno lavorato da privati in un determinato campo, e quindi sono in conflitto d’interesse; quelli che, prima di far politica, non hanno mai lavorato da privati su quei temi non hanno conflitti di interesse, ma in compenso non hanno nemmeno alcuna competenza.

In questo dilemma tra competenza e indipendenza i Cinquestelle si dibatteranno a lungo, prima di incorporare un approccio diverso che li apra a una cultura “di governo”. Ma quanti di quegli 11 milioni di voti che li hanno premiati il 4 marzo resteranno attaccati a un partito di protesta che, andando al governo, edulcori la propria grinta e smonti la propria catartica promessa di rivoluzione civile?