È un tempo strano questo, dove succedono tante cose, ma sembrano sempre le stesse. Forse perché sempre lo stesso è lo schema secondo il quale vengono riferite e commentate. Tant’è che basta sentirle per sapere già cosa se ne dirà, e perder la voglia di parlarne.

Qualcosa di nuovo, però, c’è e non incoraggia certo a discutere. Si assiste a una rottura senza precedenti della comunicazione persino interpersonale: anche tra chi si conosce da una vita, dopo un paio di battute, o si smette di parlare, o ci si manda a quel paese, o si subisce un’amarezza che rovina ogni cosa. La società sembra si stia spaccando.



A spiegarlo non basta l’arroganza della vittoria e la bile della sconfitta. Non lo spiegano neanche il rancore che si imputa al populismo, né l’aggressività del linguaggio diffusa dai talk show, neppure il progressivo discredito versato sul politically correct, e neanche la forma che danno al pensiero i social: vecchi sodalizi si sfaldano e antiche devozioni si consumano, quasi senza rammarico, come se ormai fosse inevitabile.



C’è, da un lato, un intero strato sociale, l’area per lo più benestante che un tempo si definiva progressista e illuminata, che per la prima volta si sente minacciato, la cui rappresentanza politica altre volte era risultata perdente, ma che mai in precedenza aveva visto in chi l’aveva battuta un rischio per il proprio immaginario sociale. E c’è, dall’altro, un altro pezzo di società, soprattutto di piccola e media borghesia marginale, precipitata in quell’astio che solo può nutrire chi credeva di aver vinto qualcosa e si rende conto che poco, invece, sembra possa cambiare.



Ma questo, di per sé, ancora non basta, non sembra sufficiente a dar conto di quel che sta accadendo, della radicalizzazione che si è impadronita dei rapporti interindividuali e che prende a dividere il tessuto sociale.

Ci deve essere qualcosa di più. Qualcosa che tocca il profondo di ognuno, la sua identità, il modo nel quale si concepisce e il posto che si assegna nei contesti in cui vive.

L’ipotesi che più sembra plausibile è che entrambi i due stati d’animo, che si sono prima sommariamente descritti, nascano dalla percezione ancora indistinta che una frattura si è prodotta nel proprio “mondo vitale” e che difficilmente si può immaginare che tutto torni come prima.

Da un lato vi è la coscienza che le ineguaglianze sono divenute insostenibili, addirittura volgari, che l’esistenza di cinque milioni di poveri (in Italia, ma altrettanti anche in Francia o in Gran Bretagna eccetera) è un dato registrato da statistiche che nessuno può negare, che il malessere sociale è ancora più ampio e che la solitudine individuale sembra ormai un’epidemia dell’Occidente. E però, insieme con questo, vi è la sensazione, che quasi non si vorrebbe confessare neanche a sé stessi, che a tutto questo non si dia più rimedio, che si siano pressoché esauriti i percorsi prima sperimentati, quelli che preservavano lo stile di vita e la qualità delle relazioni personali. E, soprattutto, che preservavano il modo in cui ognuno si voleva vedere e si apprezzava: per sé ma senza sentirsi di togliere agli altri, progressista ma senza mettere in discussione i propri piccoli o grandi privilegi, in breve di sinistra, ma di una sinistra permissiva e comprensiva che, alla fine, non chiedeva granché. Vi è, insomma, una sorta di “incosciente coscienza” che ognuno, ormai, è chiamato, dal modo in cui il mondo viene cambiando, a rinunciare a quell’accomodamento che lo gratificava, che ognuno ineluttabilmente è sospinto verso una parte nella quale non si sarebbe voluto ritrovare, da quel lato che accetta apertamente la soccombenza, addirittura l’umiliazione, degli altri come prezzo necessario del proprio benessere.

Dall’altro, vi è il progressivo dissolversi di una speranza, il corrosivo dubbio che la potenza globale dei mercati finanziari e delle istituzioni sovranazionali non sia più fronteggiabile. E insieme vi è il sentirsi trascinati su di un terreno, quello di un’avversione verso il migrante che muta nell’odio, che non era nel conto e che, tuttavia, si prospetta come l’unico spazio di una rivalsa verso chi giornalmente irride a un successo senza vittoria e senza molto spazio per le illusioni. E ambedue queste sensazioni giungono a interessare il modo in cui questo pezzo di società si è fin qui immaginato, ha pensato di potersi rappresentare.

Una sensazione comincia a impadronirsi dell’anima, quella che la vita dignitosa, di cui ci si compiaceva o cui si aspirava, si vada sempre più allontanando, che lo scivolamento, che ognuno subiva, si muti in sconfitta senza riscatto, che si sia destinati a far parte, prima o poi, di uno “scarto” che la società vorrebbe solo ignorare. Mentre si avverte senza volerselo dire che questa incombente minaccia produce un incrudelimento dell’anima che nessuno mai si sarebbe voluto attribuire, che la pietà, che ci si accreditava e che, magari inconsapevolmente, si faceva parte costitutiva della propria identità, viene svanendo.

C’è, dunque, in entrambi questi due strati sociali, che più non comunicano, una reciproca crescente ostilità, che nasce dalla minaccia, con cui reciprocamente si percepiscono, alle rispettive identità profonde, al rispettivo modo di concepirsi, e che ne sta modificando la cifra antropologica: per gli uni da quella di un gratificante altruismo politico a quella di un indigesto cinismo sociale verso lo stato degli altri e per gli altri da quella di una consolante appartenenza al medesimo corpo sociale dei primi a quella della percezione di un loro abbandono, di una loro secessione che li esclude e li fa escludere, che toglie il futuro e prosciuga la compassione.

L’humus, sul quale cresce quest’ostilità, questa inimicizia che disgrega le amicizie e che prima non c’era o non c’era così, è costituito dalla connessa decadenza dei due grandi idoli dell’Occidente: l’involuzione della crescita ed il crepuscolo della democrazia.

Dal dopoguerra l’intero Occidente è progredito sull’idea della crescita: la crescita che produce la crescita, un meccanismo virtuoso che attraverso canali molteplici in un modo o nell’altro raggiunge l’intera società. Su queste basi si è costruito il compromesso keynesiano e il grande edificio del Welfare State. Ma su questo racconto si è sviluppato anche il loro superamento: liberate la crescita dai lacci pubblici che la imbrigliano e la crescita crescerà, dispensando a tutti più di quello che lo Stato può garantire.

Questo racconto è ancor oggi ripetuto, ma anche chi ossessivamente lo ripete ha finito di crederci davvero. Non solo la crescita appare sempre instabile, esposta com’è agli imprevedibili sviluppi del commercio internazionale e al formarsi di nuove minacciose bolle speculative. Ma molti sanno, e molti di più intuiscono, che il suo dispositivo non opera più nel modo virtuoso di prima, nel breve e nel medio termine.

Già nel breve termine, perché con la crescita le diseguaglianze, a differenza o più di prima, promettono solo di accrescersi, essendone divenute strutturalmente una condizione essenziale: l’accessibilità, che le produzioni hanno conseguito, a un mercato del lavoro ormai planetario, comporta di necessità che nell’Occidente la crescita si dia solo se il costo del lavoro decresce e ne cresce invece la flessibilità, ossia a condizione che il lavoro si svaluti, non solo quello manuale come un tempo, ma anche quello intellettuale. E questo, a sua volta, comporta l’inesorabile conseguenza che il valore aggiunto vada sempre più alle produzioni e sempre meno al lavoro, manuale o intellettuale che sia.

Nel medio termine, perché lo sviluppo della tecnica lascia presagire che la crescita non produca affatto l’occupazione aggiuntiva di una volta: robot e intelligenza artificiale a breve prenderanno il posto di operai, impiegati e tecnici e niente è in grado di garantire che questo sviluppo creerà altri lavori ove riallocare questa inoccupazione tecnologica. Il che non solo finirà per accrescere le distanze tra chi riesce a mantenere un’occupazione e chi resta fuori dai processi produttivi stabili, ma, accrescendo la concorrenza tra quanti aspirano a lavorare, svaluterà ancor di più il lavoro e accrescerà la parte della produzione.

Tutto questo accresce la domanda di protezione di quanti sono o temono di essere colpiti da questi processi, ma la sensazione, che questo nuovo scetticismo sul carattere salvifico della crescita procura, di una loro ineluttabilità, di un destino inesorabile fa, ora a differenza di prima, avvertire tale domanda come una minaccia da scongiurare a chi si trova, o immagina di essere ancora, tra gli insider e ne muta il sentimento e, appunto, l’antropologia. Questa dinamica sociale interpella la democrazia, ma solo per mostrarne il crepuscolo.

La speranza di protezione si infrange sui conti pubblici e sulla sanzione inesorabile che ogni tentativo di invertire la rotta riceve dai mercati finanziari, prima ancora che dalle istituzioni sovranazionali. Si dice che anche i mercati votano. Solo che il voto dei mercati conta e quello dei cittadini, a questo punto, no. Con il che la democrazia finisce per apparire inutile. E questo produce in chi vi faceva conto una frustrazione che si commisura a quel che le si vorrebbe affidare, l’immagine di sé.

Il voto dei cittadini alla fine conta poco, ma può turbare i mercati: la Borsa cala, lo spread cresce, i titoli pubblici si svalutano. E così verso la democrazia, che ha provocato questo turbamento, si prende a nutrire diffidenza in chi se ne sente minacciato: taluni prendono coraggio e per la prima volta esprimono dubbi sull’opportunità che a votare sia anche chi non è “preparato”, molti rinverdiscono la teoria delle élite, proclamano l’inevitabilità di un governo sociale pressappoco oligarchico e prendono a immaginare riforme che lo favoriscano, i più propongono fronti anti-populisti, che talvolta prendono un retrogusto un po’ anti-popolare e che, comunque, cancellano la distinzione tra destra e sinistra, che della democrazia è il sale.

Ma la democrazia è, essenzialmente, la forma — che la modernità ha escogitato — per disarmare il conflitto e renderlo socialmente produttivo. Questo crepuscolo della democrazia, la sfiducia che su di essa si sparge, disattiva questa funzione salvifica e in chi ne aveva fatto fin qui la propria bandiera trasforma il conflitto in inimicizia, in un sentimento di astio che ne muta, appunto, l’antropologia.

Solo la politica, la politica in grande, quella che soltanto sa immaginare orizzonti e produrre grandi mediazioni, si può pensare che possa rendere la crescita socialmente compatibile e rivitalizzare la democrazia, e così ricucire un tessuto sociale strappato e ripristinare le condizioni di una comunicazione anche interpersonale che si è spezzata. Ma per questo ci vuole un altro discorso.