Caro direttore,
le presenti riflessioni mi son state suggerite dalla lettura de I cani del Sinai di Franco Fortini. In questo libretto, alla fine degli anni 60, Fortini sostenne che la pressione totalitaria del mondo industriale sulle società occidentali avrebbe favorito nelle epoche successive l’aumento capillare del razzismo. 



L’odierna situazione politica delle società occidentali, sebbene per certi versi post-industriali, dà ragione a Fortini, alle sue osservazioni, a questo punto profetiche. L’asservimento del mondo politico o, almeno, della stragrande maggioranza di esso, agli interessi economici del capitalismo finanziario e del libero mercato, ieri delle industrie, oggi delle multinazionali, America in primis, col generare una crisi delle istituzioni di rappresentanza politica, ha facilitato l’identificazione di massa con leaders sovranisti i quali, sfruttando abilmente la politica degli slogans, meglio se via twitter, si presentano come i paladini di interessi nazionalisti e, con essi, di quella classe media dimenticata dall’establishment politico. Come notava anche Federico Fubini sul Corriere (25 agosto), in Italia, il governo giallo-verde ha “domande giuste (disoccupazione, disuguaglianza…)”. 



Bene. Ci potremmo chiedere ora se i leaders sovranisti hanno rovesciato, nei fatti, la prassi di potere finalizzata al benessere dei pochi, sulla denuncia della quale hanno fondato il loro consenso. Detto altrimenti, con Romano Guardini, ci potremmo domandare se tali leaders siano davvero passati dalla prassi del potere finalizzato al benessere dei pochi, alla prassi del potere responsabile finalizzato al bene dell’intera comunità civile. 

Nel caso dell’Italia la risposta è semplice: che mai politici come quelli attualmente al potere si sono intesi così bene con i propri predecessori: dell’attuale governo, infatti, il tatticismo esasperato (quello della convivenza forzosa tra Lega e M5s, ma anche del premier equilibrista, in bilico sul filo teso tra Salvini e di Maio), l’affrettata ricerca di capri espiatori da dare in pasto all’opinione pubblica (a cui attribuire, per esempio, la caduta del ponte Morandi) e la demagogia (quella antieuropeista, sovranista di Salvini), sono solo alcune delle manifestazioni del calcolo politico che domina le strategie degli odierni uomini di potere, manifestazioni che fanno di questa cosiddetta “terza repubblica” un clone di quella “seconda” che, a questo punto, solo nei proclami di facciata viene rovesciata dai nostri governanti.



Tuttavia, oggi, in Italia, i critici dell’ideologia sovranista faticano a comprendere che il sovranismo non è la causa del dissesto politico in cui versiamo, ma piuttosto è una conseguenza dell’emergenza democratica sopra evocata; che il sovranismo non è l’albore di un nuovo totalitarismo ma piuttosto di un assetto politico, anche se subdolamente, sotto fattezze formalmente democratiche, già a carattere totalitario o, come avrebbe detto Václav Havel, post-totalitario. 

Il rischio che corriamo, tutti, è quello del moralismo, dunque: ovvero, quello di identificare la contraddizione esclusivamente fuori di noi, in questo caso il governo giallo-verde, come se la contraddizione non fosse insita nella cultura (formalmente) democratica in cui il sovranismo ha attecchito; come se il timore dell’immigrato, dell’altro da sé, a cui i sovranisti danno voce non riguardasse in fondo ciascuno di noi — non fosse altro per il “timore”, più o meno cosciente, “che ci rubino la pappa” come candidamente affermava il sociologo Marzio Barbagli sul Corriere (25 agosto). 

Il rischio che tutti dovremmo correre, invece, è quello di essere morali, si potrebbe dire; ovvero, di usare il potere che abbiamo, che ciascuno di noi possiede per il fatto di aver in dote la propria libertà, per metterci a servizio dell’altro, a cominciare dalla realtà familiare, amicale, locale in cui viviamo: costruire ponti, piuttosto che alzare muri. Qualche settimana fa (13 agosto) sulle colonne dell’Espresso Pierfrancesco Majorino, col riflettere sulla necessità di rifondare la sinistra all’opposizione, indicava il centro d’accoglienza per migranti di Chiaravalle come un esempio di buona politica: una realtà in cui “ci sono cittadini che iniziano a costruire legami interessanti con chi è ‘arrivato'”.

D’altra parte, proprio l’odierno momento storico, con vista sulle elezioni europee, pone anche la politica nazionale innanzi a un bivio: o voltare le spalle alla storia che ci unisce ai Paesi fondatori dell’Unione, decidendo per l’isolamento nel fronte sovranista; oppure, collaborare con Germania e Francia, anzitutto, per trovare strategie comuni e di lungo periodo a fronte degli attuali problemi globali: la migrazione, certo, ma soprattutto l’educazione delle giovani generazioni (di cui nessuno parla), e poi la questione ambientale, le politiche economiche (di cui, di queste sì, tutti parlano), la lotta contro le diseguaglianze sociali ecc. Come ricordava al Meeting di Rimini Paolo De Castro, vicepresidente della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo, l’Italia nelle istituzioni europee anzitutto c’è: in Parlamento (rafforzato dopo il trattato di Lisbona), in Commissione, e in Consiglio. Non solo c’è, ma quando ha accettato la responsabilità di appartenere a questa storia, con umiltà, con fatica, con spirito di condivisione, ha contribuito a fare delle istituzioni europee un luogo di costruzione del bene comune. Per chi vuole promuovere processi di democrazia reale, insomma, anche nelle istituzioni europee, così come nella realtà ordinaria, locale, una possibilità c’è: a patto che, col gettare il proprio corpo nella lotta (per richiamare un motto della Sinistra americana degli anni 60) accetti di vivere il potere come servizio. Davvero nessuno può dirsi esente da questa sfida.