Nella cartina di tornasole del sistema-Paese rappresentata dallo stato di salute del media e dallo stato dei rapporti fra media e poteri pubblici, non è facile scegliere. Nella cronaca degli ultimissimi giorni è più rilevante l’escalation polemica fra il vicepremier Di Maio, la Fnsi (il sindacato dei giornalisti) e il gruppo Gedi, oppure la copertina riservata stamattina da Economia del Corriere a Francesco Caltagirone Jr, formalmente un concorrente? È più indicativo il duro scontro fra i giornalisti del Sole 24 Ore e il loro editore sul controverso endorsement di Confindustria alla Lega oppure la singolare apertura di Urbano Cairo – in un’intervista al suo Corriere della Sera – all’aggregazione di “un altro quotidiano”? È più importante il riposizionamento di Panorama presso La Verità oppure l’allineamento dello storico magazine Mondadori a una lunga catena di stati di crisi editoriali accomunati dalla richiesta media del taglio di un terzo del costo del lavoro giornalistico?
Il premier in persona, Giuseppe Conte, in un’intervista a Famiglia Cristiana ha cercato di ristabilire almeno un “distinguo”. È sembrato prendere le distanze dall’acme polemico toccato dal suo vicepremier contro La Repubblica, riaffermando la piena tutela della libertà di stampa come pilastro di ogni democrazia. Ma ha anche ricordato che la principale auto-tutela, per media e giornalisti, resta il successo di mercato della loro offerta informativa.
L’informazione è certamente il sale e il presidio della democrazia, ma non è un “servizio pubblico” che – se necessario – dev’essere garantito dallo Stato (il quale comunque opera già su questo terreno attraverso la Rai). Tanto meno è immaginabile che il governo intervenga a sussidiare una società editoriale quotata in Borsa come Gedi (o Rcs o Gruppo 24 Ore o Caltagirone Editore o Poligrafici), che compete sul mercato aperto e per di più è controllata da grandi forze finanziarie private (Agnelli e De Benedetti per Repubblica e Stampa; ma anche Intesa Sanpaolo dietro Cairo in Rcs e La7; Confindustria per il Sole 24 Ore; Caltagirone per Messaggero e Mattino; Monti-Rieffeser per Giorno, Resto del Calino e Nazione, Berlusconi per Il Giornale, Mondadori e Mediaset ,ecc.).
Sembra rischiosa anche l’accusa sul presunto boicottaggio pubblicitario da parte dei grandi gruppi a controllo pubblico: il calo strutturale degli investimenti pubblicitari sui media tradizionali data da ben prima dell’avvento del governo giallo-verde. Piuttosto il caso Autostrade ha suggerito nell’opinione pubblica riflessioni opposte: quanto una stampa che si autodefinisce “libera” lo è davvero sul versante della proprietà e degli investitori pubblicitari privati?
Non da ultimo: nel ventunesimo secolo ormai inoltrato, quale “libera stampa” può vantare davvero l’esclusiva della difesa della “libertà di stampa” nella democrazia globalizzata? Chi garantisce davvero la libera circolazione di not-fake-news e di fair opinions? Solo media fondati nel dicannovesimo o ventesimo secolo e andati in crisi nel ventunesimo? Solo i giornalisti iscritti al più anomalo degli ordini professionali, creato dal fascismo e fatto essenzialmente di dipendenti?
La nuova maggioranza parlamentare vuole mettere in discussione tutto quanto sta accadendo nell’industria nazionale dei media. La reazione è un “no” pregiudiziale violento e congiunto da parte di editori e giornalisti. Un muro che diventa inevitabilmente denuncia di attacco alla libertà di stampa da parte della politica. E se fosse invece un attacco dell’editoria alla politica che vuole togliere oneri e privilegi a carico dello Stato? Se fosse il rifiuto degli editori di investire nelle loro aziende e dei giornalisti di fare i conti con l’informazione digitale?