Un periodo di crisi, come quello attuale, può essere un’occasione propizia per porsi alcune domande fondamentali, come in fondo sarebbe bello fare anche nella vita personale: tanti comportamenti adottati quotidianamente per distratta e consolidata abitudine devono diventare problema, per suggerire nuove rotte. È quanto mi è venuto in mente in questi giorni, seguendo le reazioni legate alla decisione del Governo di incrementare il deficit per i prossimi anni – o almeno per il prossimo anno – al 2,4% del Pil, su cui dovrebbe aprirsi, a mio avviso, un serio dibattito politico.
Una prima reazione può essere codificata nelle preoccupazioni di Mario Draghi nel colloquio privato avuto con il Presidente della Repubblica Mattarella. Secondo fonti di stampa, Draghi avrebbe detto che “la scommessa dell’ala più radicale della maggioranza [per la futura manovra] sbaglia bersaglio: più che l’atteggiamento delle istituzioni Ue, l’Italia deve temere il declassamento da parte delle agenzie di rating” che potrebbe arrivare a fine ottobre e “provocare danni incalcolabili, moltiplicando la sfiducia sui mercati“. Senza contare che con la fine ormai prossima della politica espansiva della Bce (Quantitative easing), l’Italia dovrebbe ricorrere in caso di difficoltà a programmi di finanziamento eccezionali concordati con la Commissione europea, come è successo in Grecia.
In modo molto meno elegante e professionale, il Commissario Valdis Dombrovskis, rilevando che la decisione sull’ampliamento del livello di deficit non è rispettosa del patto di stabilità, ha precisato che, così facendo, oltre a minacciare l’intera Eurozona, la reazione dei mercati porterebbe inevitabilmente a un innalzamento del costo del debito sovrano (sintetizzato dall’aumento dello spread tra Btp e Bund tedesco), con la conseguenza di vedere le nuove risorse pressoché completamente riassorbite dalla spesa per interessi sul debito pubblico. Naturalmente, tutto ciò è un pericolo reale: l’incremento dello spread si tradurrà in una maggiore difficoltà a trovare compratori sul mercato, eroderà il capitale delle banche, con nuove strette sul credito a famiglie e imprese, ripetendo il triste copione del 2011-2012: saranno quindi gli italiani a pagarne le conseguenze.
Questo discorso, per quanto ineccepibile, lascia nell’ombra un presupposto che sarebbe ben ora di far emergere: la sovranità assoluta e incontrastata dei mercati, frutto di quel liberismo che ha intimamente pervaso la cultura contemporanea, non solo economica. Personalmente non condivido i due principali punti del programma giallo-verde (superamento della Legge Fornero e reddito di cittadinanza), ma non posso non rilevare che la serietà di chi governa si misura anche dalla volontà di realizzarlo e disinnescare le clausole di salvaguardia per scongiurare l’aumento dell’Iva (circa 12 miliardi di euro) ha assorbito negli ultimi tre anni la maggior parte delle risorse delle manovre di bilancio, con poco spazio per stimolare la crescita. D’altra parte, gli sforzi di contenimento del debito fin qui attuati non hanno portato negli ultimi anni a una sua riduzione, essendo lievitato il rapporto debito/Pil al 132%. Il liberismo, dunque, sembra mortificare qualsiasi intento politico riformatore, sottoponendolo a vincoli di bilancio che stanno ormai stretti a molti Paesi europei.
Un’altra reazione si è concentrata sui livelli del deficit: superato il limite dell’1,9% secondo autorevoli economisti – ad esempio Carlo Cottarelli – il debito salirebbe e andrebbe fuori controllo, non sarebbe più governabile. È vero? Non saprei, non essendo un economista. Sul punto, però, ci sono opinioni differenti. In una recente intervista al quotidiano La Repubblica, Paolo Savona -ministro per gli Affari europei – di fronte a tale domanda osserva che il rischio di solvibilità del debito non esiste oggi, come non esisteva negli anni ’70 o ’90; il vero rischio dipende dalla mancata crescita, che può essere “aggravata da politiche deflazionistiche imposte dal mito europeo del pareggio di bilancio“.
Per Savona, lo scenario peggiore sarebbe una caduta della crescita reale sotto l’1% nel 2019, che comprimerebbe poi ulteriormente la ripresa negli anni successivi, rendendo di fatto insostenibile il debito; mi sembra, in fondo, l’applicazione di un principio elementare: non si possono onorare i debiti se non si lavora! Sulla stessa linea è Giulio Sapelli. Proprio dalle colonne di questo giornale, ha usato parole forti e incisive, che riporto per intero: “Chi fa la politica non sono le caste […] ma chi detiene l’egemonia culturale. E oggi ad avere l’egemonia è il pensiero ordoliberista. I suoi fautori sono riusciti a convincere anche gli operai che il pareggio di bilancio è il signore assoluto delle nostre vite. Non è vero. Il punto non è avere debito zero, ma che il debito sia solvibile. Conosco un bravissimo ragazzo nero che pulisce i bagni in una palestra. Il debito ci ucciderà tutti, mi ha detto un giorno. Non è vero, gli ho detto io, è una favola che ti hanno raccontato quelli che vengono qui, molti dei quali sono gli stessi che parlano in tv. Che contratto hai? – gli ho chiesto. Mi hanno rinnovato per due volte un contratto di tre mesi – fa lui. Sono in regola! – insisteva. No, gli dico. Per convincerti che il contratto di tre mesi è buono e che ti deve bastare, ti dicono che altrimenti saremmo tutti schiacciati dal debito. Chiaro? L’ordoliberismo è penetrato a tal punto nelle viscere della gente che anche un povero ragazzo che pulisce i gabinetti la pensa esattamente come i ricchi che usano quei gabinetti lasciandoli sporchi. Questo non è mai accaduto nella società“.
Entrambi, Savona e Sapelli, sottolineano l’esigenza pressante di un’Europa sociale, fatta non di grigi burocrati, ma di persone che contano e pensano, com’era in fondo nelle intenzioni del progetto europeo fin dagli inizi. Le elezioni europee del prossimo anno potrebbero essere una buona occasione per ripensare l’Europa, altrimenti non oso nemmeno immaginare cosa accadrà. Nella citata intervista, alla domanda sull’esistenza del noto “Piano B” (espressione con cui si ipotizzerebbe l’uscita dall’euro, che tanto nervosismo ha già prodotto), Savona dice che i Piani B esistono in tutti i cassetti delle banche centrali e “se la Banca d’Italia non l’avesse sarebbe una colpa grave da citare nei libri di storia.[…] parlare dell’esistenza di questi piani di emergenza non vuol dire auspicarne l’attuazione, solo prendere atto, appunto, che dovrebbero comunque esistere“.