Alcuni hanno fatto il male con intenzione, come Tamerlano che erigeva piramidi di teschi. Altri lo hanno fatto per disegni diabolici, come Hitler con le sue camere a gas per gli ebrei o come Stalin per inseguire i suoi sogni di un comunismo contro i “nemici del popolo”.

Lei no, certo non è a quelle altezze di scelleratezza. Così i suoi oppositori, che la criticano come una dei sindaci peggiori di Roma di tutti i tempi, raccontano un’iperbole, un luogo classico della retorica italiana tessuta di note di melodramma esagerato. Quelle storie tutte peninsulari in cui il protagonista dice: “ti strappo il cuore”, e invece dà solo una spinta.



Eppure Virginia Raggi, sindaca di Roma, forse è davvero pessima, ma diversamente da come lo sono stati altri. Gli altri, infatti, l’intenzione del male l’avevano sul serio. Volevano uccidere gli ebrei o i kulaki considerati ostacoli ai loro calcoli politici, lei no. Lei ha fatto il male senza intenzione, senza agire, ed è un male piccolo, un male tutto fatto di incuria, di mancanza di volontà, di spina dorsale.



È il male di quello che doveva pulire le fognature perché con le piogge non si intasassero, che doveva riempire le buche per le strade per renderle fruibili, oliare le scale mobili per non farle crollare, riparare gli autobus per non farli incendiare, raccogliere l’immondizia perché così si fa… o, come è successo negli ultimi giorni, tagliare i rami perché il vento non abbattesse gli alberi bloccando mezza città. È il male di chi voleva fare il sindaco, ma poi non lo ha fatto. Non ha parlato al pubblico, ai giornalisti, all’opposizione. Forse non parla nemmeno con la tata che le tiene i figli, perché evidentemente non sa cosa rispondere. Ha paura della sua ombra. E quindi, che sindaco è?



In questo poi c’è una doppia tragicità. C’è la tragedia tutta italiana che di fronte a questa pessima sindaca la città, il Paese, non insorgono e non la processano come avrebbero fatto in Cina (e avrebbero torto?) per incompetenza acclarata. I romani, gli italiani fanno spallucce. Perché non vedono alternative e preferiscono comunque la Raggi a una riedizione dei suoi predecessori. L’unica altra opzione diversa che si profila è un candidato della Lega, come se solo un uomo del Nord potesse portare ordine alla capitale del Sud dell’umanità, quale è diventata Roma.

L’altro elemento tragico è lei medesima. Nascosta, perseguitata, con gli occhi insieme timidi e feroci del Golum assatanato dall’anello del potere. Appare come uno spettro solo per esibizioni su palco o su eventi senza interlocutori, come i selfie al telefonino. Sarà vera? O è il prodotto di un sogno (o di un incubo) di Casaleggio padre?

È una donnina precipitata in qualcosa dove non c’entrava niente, dove forse non capisce niente, come una moderna Giulietta degli Spiriti, ignara della vita che fa. È chiaro non sa cosa fare, cosa dire, e forse quindi non sa nemmeno cosa pensare. È tutto più grande di lei, ma lei non può lasciare, forse non sa lasciare. Perché lei, poi, non è lei, è la pietra di scambio di mini-Machiavelli del Movimento 5 Stelle che l’hanno scelta, presa e usata come un pupazzo, come una pupa; convinti di che cosa, che Roma potesse per magia governarsi da sola? Che bastasse al governo “onestà-onestà”? O che l’importante fosse solo prendere il potere?

Poi, di nuovo, come in tutte le rivoluzioni, la colpa (o il merito) non è dei rivoluzionari, che per essere tali sono sostanzialmente bruti e ignoranti, ma di chi era al governo prima e la rivoluzione non l’ha saputa impedire.

Dopodiché la rivoluzione è spietata e se la Raggina non compare, il suo vuoto, malvagio o tragico, sarà riempito da altri rivoluzionari, più feroci e determinati di lei, e così via. Finché qualcuno non farà più cadere gli alberi, e sembrerà un miracolo, come i treni che arrivavano in orario.