La domanda sorge spontanea: sino a quando il governo guidato dall’incolore Giuseppe Conte riuscirà a reggere al braccio di ferro sempre più evidente fra le due anime che lo compongono? I motivi di dissidio, invece che ridursi, aumentano giorno per giorno, e segnalano una crescita graduale della pressione dei leghisti sui pentastellati.



Sulla Tav è ormai guerra aperta, con i parlamentari salviniani che si sono mescolati sabato in piazza Castello a Torino con la nuova marcia dei Quarantamila, che ha sancito il definitivo divorzio della sindaca Appendino dalla parte più produttiva della città piemontese. Un preavviso di sfratto in piena regola, che i leghisti non hanno esitato a cavalcare.



Avrebbe potuto aprirsi un altro crepaccio nella maggioranza, ma Virginia Raggi è stata salvata due volte in 36 ore, prima dall’assoluzione in un’aula di giustizia, poi dall’incredibile indifferenza dei romani che hanno evitato di trasformare il referendum consultivo sulla messa a gara del (pessimo) servizio di trasporto pubblico urbano in un ballottaggio pro o contro l’amministrazione capitolina. Non a caso la Raggi ha parlato di fallita Opa di Salvini su Roma. Se, infatti, la prima cittadina della capitale fosse stata travolta, lo scontro per il Campidoglio avrebbe visto i due soci della maggioranza di governo l’un contro l’altro armati. I preparativi del leader leghista erano sotto gli occhi di tutti.



Non è che lo scampato pericolo romano semplifichi però la vita ai 5 Stelle, che avevano cominciato una manovra di sganciamento delle sorti del Movimento  da quelli della loro sindaca. Il disastro amministrativo a Roma rappresenta una zavorra enorme per i grillini. E il nervosismo di Di Maio e soci è esploso negli insulti scomposti lanciati contro i giornalisti. Gestire la giunta Raggi con i suoi pasticci continuerà a essere una ragione di imbarazzo.

Messo alle corde dall’alleato, il Movimento 5 Stelle cerca di uscire dall’angolo di nuovo con una mossa sul terreno delicato della giustizia. Dopo lo scontro sulla prescrizione, concluso con un rinvio che profuma di vittoria leghista, il ministro Bonafede ha rilanciato il tema del conflitto d’interessi. All’alleato leghista ha ricordato come la questione sia compresa nel contratto di governo.  Sembra evidente l’intenzione di mettere sotto pressione il Carroccio sul versante dei rapporti con Berlusconi e il resto del centrodestra.

Il problema esiste, e lo testimoniano le parole di fuoco di Berlusconi sul rischio di una involuzione autoritaria. Un allarme che Salvini rispedisce al mittente con sufficienza, ma che costituisce indubbiamente un punto critico su cui il ministro dell’Interno dovrà prendere una decisione definitiva. Davanti a lui sta un bivio: coltivare l’ambizione dell’autosufficienza (al limite annettendosi la Meloni), oppure tenere in vita il centrodestra, nel quale Berlusconi ha ancora un pacchetto di voti ridotto ma decisivo, almeno nell’ipotesi che si torni al voto in tempi brevi.

Al momento Salvini sembra propendere più per la prima ipotesi, l’autosufficienza, convinto che la gran parte dell’elettorato di Forza Italia sia pronto a seguirlo. Del ceto politico raccolto intorno a Berlusconi non sa che farsene, e conta sul fatto che c’è una parte non piccola dei parlamentari e dei dirigenti territoriali pronta a saltare sul Carroccio. Sinora è stato lui a tenere chiuse le porte della Lega. Ci potrebbe essere in un futuro non troppo lontano un momento in cui far venir meno questo no ai transfughi potrebbe essere l’arma decisiva per dare il colpo di grazia a Berlusconi e a Forza Italia.

La navigazione del governo Conte è destinata, quindi, a continuare nelle prossime settimane in un clima da braccio di ferro continuo, con i leghisti all’attacco e i penta stellati sulla difensiva, ma niente affatto disponibili a farsi stritolare. Il rischio di incidenti è altissimo. E qualcuno potrebbe pure lavorare per provocarli. Il fuoco cova sotto la cenere.