È un accerchiamento. Ieri in Parlamento sono continuate le audizioni a proposito della legge di bilancio e non c’è stato uno che abbia concesso una sponda anche piccola al governo. Istat e Corte dei conti hanno concordato nel definire esagerate le stime di crescita dell’economia nel 2019. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha aggiunto che il rapporto deficit/Pil sarà del 2,6% e non del 2,4. Il Centro studi di Confindustria ha ribadito di vedere nero. L’Associazione delle banche ha criticato l’impatto che l’aumento degli interessi sul debito avrà su famiglie e imprese. E tutto questo fioccare di bocciature si è concentrato nel giorno in cui il governo deve preparare la lettera di risposta alle osservazioni dell’Unione europea.



La girandola di numeri può dare alla testa e in effetti qualche capogiro il governo l’ha avuto. A Palazzo Chigi era previsto un vertice tra il premier Conte e i due vice, Di Maio e Salvini, per concordare la linea da dettare al povero ministro dell’Economia, il cireneo che deve mettere la firma sotto la lettera-capestro. Sul vertice è scoppiato il caos. Il M5s ha fatto sapere che “non è in corso e non c’è stato alcun vertice” a Palazzo Chigi. Poco prima altre fonti vicine alla Lega avevano invece fatto sapere che l’incontro era in corso ma Di Maio non si era presentato. E non c’era nemmeno Tria. Era presente invece il sottosegretario Giorgetti con viceministri e sottosegretari all’Economia. Di Maio era non molto lontano, alla Camera, a chiacchierare con i giornalisti da poco insultati ma evidentemente utili a mostrare che lui, Giggino, con Salvini non ci parla proprio. E quando il vertice (spuntato) si è dissolto, il ministro del Lavoro si è avviato verso Palazzo Chigi per incontrare separatamente Conte.



Un bel caos. Per qualche ora il problema è stato l’uso della parola “vertice”. Dopo che sui giornalisti, ogni colpa è stata scaricata sul vocabolario. Il problema è che la confusione non è stata dissolta, in quanto tutto è stato rinviato a oggi dopo la chiusura del vertice palermitano sulla Libia. E lo psicodramma di ieri si è svolto tenendo dietro le quinte quello che invece dovrebbe essere un protagonista, cioè il ministro Tria, trattato come un portaborse, o al massimo un notaio che deve controfirmare atti scritti e decisi da altri. Ma la faccia ce la deve mettere lui.

La lettera dunque non è partita. Verrà completata nelle ultime ore utili per rispondere alla tirata d’orecchi di Bruxelles. Le linee principali del provvedimento non saranno modificate. Resta il deficit al 2,4%, rimangono i due fondi per il reddito di cittadinanza e l’abolizione della legge Fornero nonostante le cannonate sparate dall’Istat: un quarto dei probabili percettori dell’indennità sarebbero proprietari di casa e non potrebbero essere proprio definiti poveri in canna, mentre chi usufruirà di quota 100 potrebbe subire penalizzazioni sull’assegno di quiescenza anche del 30%.



Ma soprattutto resiste il muro contro Tria, che invece vorrebbe ammorbidire alcune parti del documento di bilancio, magari ritoccando al ribasso il deficit per tranquillizzare l’Europa e allontanare lo spettro del commissariamento. È lui il parafulmine tra il dilettantismo grillino, che non può sfilarsi dalla partita della vita nonostante le incompetenze sempre più palesi, e il cinismo leghista che non ha alcun interesse a chiudere ora l’esperienza del governo gialloverde.

Il punto di rottura, se ci sarà, verrà da fuori. Per esempio da Torino, dove la marcia di sabato ha smascherato le contraddizioni forse insanabili tra i due alleati sul tema chiave delle grandi opere.