L’ultima occasione per distinguersi in maniera piuttosto rude dal suo collega vicepresidente Luigi Di Maio, Matteo Salvini l’ha quasi colta senza pensarci, con un discorso a Napoli sulla necessità di assicurare lo smaltimento delle immondizie delle province della Campania con l’installazione di inceneritori e termovalorizzatori. Era come se il leader della Lega volesse parlare di corda in casa dell’impiccato.



Di Maio ha reagito subito con una dichiarazione piuttosto “forbita”, si fa per dire, che sostanzialmente è una replica secca e piccata: non se ne parla proprio! Poi, secondo un’ormai noiosa tiritera, ha richiamato i termini del contratto di governo, dove l’argomento non è contemplato. In gergo calcistico, si potrebbe dire: si è di nuovo rifugiato in corner.



Non è mancato neppure un severo richiamo di Roberto Fico, il presidente della Camera napoletano verace, uno dei leader della cosiddetta minoranza dei 5 Stelle e quindi del secondo gruppo del governo gialloverde.

Nel mondo grillino, senza dubbio, c’è un certo disagio, alcuni lo definiscono montante e notevole, che si vede nelle uscite dal Parlamento di qualche deputato o senatore in occasione di alcune votazioni e anche nelle loro dichiarazioni di dissenso su alcuni decreti.

La questione della profonda revisione della prescrizione è stata rinviata a un’ipotetica riforma di tutto il processo penale, su cui il guru giuridico dei pentastellati, Piercamillo Davigo, è convinto di non avere abbastanza vita a disposizione per vederla realizzata.



Poi ci sono state sistemazioni continue, fino all’ultima riga dei decreti, sui condoni fiscali ed edilizi, con l’affare di Ischia collegato un po’ troppo forzatamente all’intervento sulla tragedia del ponte di Genova. Per non parlare, infine, delle grandi opere infrastrutturali, dove, in realtà, a parte la questione dei “costi e benefici” da valutare, c’è un abisso di visione dello sviluppo che separa Lega e M5s.

Il richiamo al contratto di governo è indubbiamente calzante, ma la sensazione è che soprattutto nell’area di Di Maio ci sia sempre più voglia di “portare a casa qualcosa”, di fronte ai leghisti che sembrano gli autentici gestori del governo e sopratutto continuano a crescere nei sondaggi, anche a discapito dei grillini in netta frenata, che si sono salvati con Virginia Raggi a Roma, ma hanno dovuto subire una contestazione popolare a Torino, formalmente per la Tav, realisticamente per la gestione amministrativa complessiva del sindaco Chiara Appendino. Ma nessuno rischierebbe nuove elezioni: in genere chi le invoca perde e poi non si vedono alternative realistiche.

Insomma, le occasioni di divisione e di rottura di questo governo si possono facilmente elencare, ma si fermano improvvisamente di fronte al nodo strategico che accomuna i due movimenti tanto diversi: la battaglia in sede europea, che quasi li condanna a restare insieme al governo.

Questo nodo strategico è collegato alla dura contestazione contro l’Europa e si serve di una manovra finanziaria, che viene definita espansiva (forse è una pia speranza), e viene sbattuta in faccia ripetutamente, a voce e per lettera, all’Unione Europea, ai “soloni” sbiaditi e cocciuti di Bruxelles, alla politica che un’Angela Merkel in declino fa portare avanti da tutti i suoi vassalli sparsi per l’Europa, quelli che ora fanno gli zelanti, ma probabilmente sono già pronti al tradimento post-elettorale di maggio. Questa manovra finanziaria è, appunto, diventata una sorta di colla molto forte per tenere insieme Lega e 5 Stelle, almeno fino alle elezioni europee e forse anche per l’estate, quando si potrebbero delineare i primi nuovi assetti geopolitici.

Il gioco pesante consiste nel dare una spallata alla leadership tedesca e ai suoi alleati, che in verità con la loro politica hanno creato un sommovimento politico e sociale che rischia di ridimensionare brutalmente la costruzione europea, al punto che sono riusciti a far rinascere persino i nazionalismi che erano quasi tramontati.

E’, in tutti i casi, una partita specularmente sgangherata: da un lato, c’è la fragilità di un governo, come quello italiano, che ha una classe politica di autentici improvvisatori e che ha alleati contati e infidi in Europa; dall’altro, ci sono i “tecnosauri” dell’austerity e dei “conti a posto”, di quelli che, con la scelta neoliberista del pensiero unico, hanno contribuito a provocare insieme agli americani la crisi del 2007 e poi a non risollevarsi più, in modo vero e reale, producendo sacche di povertà, disparità sociali insopportabili, disoccupazione, precarietà e pure nascondendo sotto il tappeto qualche voragine, qualche tonnellata di prodotti derivati e altre raffinatezze finanziarie che gravano sulle banche, anche e soprattutto su quelle tedesche, che alla fine dovranno inevitabilmente venire alla luce.

In attesa delle elezioni europee, in Italia si continuerà così: a litigare, a distinguersi e nello stesso tempo, con tutta probabilità, a essere condannati a governare insieme.

Questo è il trend più probabile di una partita molto ampia, internazionale, dove l’Italia è poi solo una comprimaria e gioca indubbiamente una carta azzardata. Per rendersi conto della portata di questa partita, bastava guardare le facce dei leader riuniti a Parigi per il centenario della fine della Prima guerra mondiale, con un Donald Trump e un Vladimir Putin che avevano il sorriso sulle labbra e si salutavano in continuazione di fronte alla truppa dei leader europei sconfitti a tutte le ultime elezioni nazionali. Era come se vedessero la disgregazione dell’Europa a portata di mano. E’ comunque una scelta infelice quella di schierarsi da un lato o dall’altro, tra campioni dell’antipolitica, sia in chiave populista e sovranista, sia dentistico-economica, per dirla alla Keynes.

Certamente, anche di fronte a questo trend, i mesi che ci separano dalle elezioni europee possono procurare problemi seri agli italiani, sia da un punto di vista economico, sia da quello della stabilità politica. La risposta di Bruxelles alla manovra di Roma può diventare ancora più forte di quella che è stata fatta sinora, magari con qualche “Stato vassallo” che si espone in prima persona a recitare la parte del duro.

Poi c’è il futuro di un uomo come Mario Draghi da immaginare, sia per quello che può fare nell’immediato, sia per quanto pensa di fare una volta uscito dalla Banca centrale europea. E’ un’incognita. Forse è diviso tra la voglia di dare un’altra chance con ancora un po’ di Quantitative easing e la voglia di mantenersi al riparo della “casa madre” dell’Unione, anche se venisse ridimensionata.

Infine, non si può escludere che tra una reazione violenta dell’Europa, una fibrillazione dei mercati e tanti interessi connessi e poco noti, non sia lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a suggerire passi più moderati e concilianti al nostro governo, pena la mancata firma sotto la legge di bilancio.

Saranno tempi durissimi.