Se c’è una cosa che deve affascinare dell’attuale leadership europea è la sua stupefacente e meravigliosa incapacità di concepirsi in termini strategici e di capacità di proiezione di forza.

Ciò che, forzando il linguaggio e piegandolo ad esigenze di controllo sociale, ci hanno abituato a chiamare Europa – per farci dimenticare che Europa è una categoria della storia e della cultura mondiale, e non un disfunzionale grumo di Stati retto da rapporti egemonici il cui nome proprio è Unione Europea – è esclusivamente una potenza terrestre. Governa un piccolo e limitato pezzo di Eurasia. Non ha capacità di proiezione marittima, nonostante la Francia da sempre aspiri ad essere presente sul mare. Il suo naturale ambito di espansione sta nell’Oceano di Terra che inizia, al confine tra Germania e Polonia, tra Chemnitz e Wroclaw, e finisce sulle coste del Pacifico, dove l’ultimo pezzo di costa siberiana affronta le coste giapponesi e a sud confina, per terra, con un lembo di Cina. Ma quello spazio le è precluso perché da sempre quell’Oceano di Terra è troppo vasto per poter essere controllato, ed è militarmente presidiato in modo insuperabile dal gigante russo.



A differenza del suo ingombrante vicino, la proiezione di potenza dell’Unione non è militare, ma esclusivamente commerciale e mercantile. Tant’è che il suo diritto è una lex mercatoria riadattata all’età della tecnica e dell’informatica, impiegata come strumento di governo contabile, ed abbellita da una retorica dei “diritti fondamentali” fatta per distruggere la tradizione plurimillenaria del diritto razionale europeo.



L’Unione non può proiettarsi nel mondo attraverso la forza della finanza, perché la finanza è affare esclusivamente anglosassone. Si proietta nel mondo attraverso la produzione e l’esportazione di manufatti, e l’accumulo di surplus commerciali superiori a quelli cinesi. Il progetto europeo per una proiezione di forza finanziaria in competizione con il dollaro nelle aree asiatiche e del Medio oriente, che pure c’è stato, è fallito anche prima della crisi del 2008. Di quel progetto restano solo gli effetti interni, e cioè la capacità da parte di alcuni Stati-nazione di impiegare una moneta creata dall’ingegneria finanziaria per egemonizzare altri Stati-nazione con la collaborazione della  classe dirigente di questi stati nuovamente asserviti. Con l’unica differenza rispetto al passato recente che questa egemonia si basa sulla forza contabile e non più militare. Da qui la differenza tra Core e Piigs — e cioè tra “Nucleo” e “Poorci” – che descrive in due parole il nuovo disequilibrio europeo.



La collocazione geografica degli Stati-nazione egemoni, e cioè Germania e la subordinata Francia, è però determinante per il loro destino politico. Vista la loro collocazione, la proiezione di forza attraverso l’esportazione è destinata a svolgersi soltanto per vie di terra, come per via di terra doveva proiettarsi la potenza manifatturiera tedesca sulla direttrice Berlino-Baku-Baghdad all’inizio del XX secolo: la via di terra che doveva essere la risposta continentale alla rotta che, attraverso Suez, da Londra arrivava in India e in Australia e che costituiva la “spina dorsale” dell’Empire da proteggere ad ogni costo.

Già la diversa percezione degli spazi coinvolti dalle vie di terra e dalle rotte di mare avrebbe dovuto mettere in guardia i suoi architetti dal riporre troppe speranze in un progetto che si è interrotto con l’avvio della Grande Guerra Civile europea, iniziata nel 1914 e finita nel 1945. Così non è stato, come aveva capito benissimo Carl Schmitt, quando diceva “la Germania non è mai stata altro che uno stato continentale europeo di media grandezza. Questo è il nostro destino: un destino da topi di terra! Il Reich tedesco è ridicolo a confronto con l’Empire inglese” (Terra e Mare. Riflessioni sulla storia del mondo, Adelphi 2002). Il Landnahme, l’impossessamento di Terra, insomma, non è niente in confronto al Seenahme, all’impossessamento di Mare: questa è la lezione lasciata da Carl Schmitt ai poveri strateghi di Maastricht e Lisbona. E questo segna il destino dell’Unione, che è un destino di inevitabile fallimento, nonostante le sue strategie mercantiliste.

In realtà l’Europa di Maastricht ha avuto la possibilità di diventare una potenza marittima attraverso il rapporto con la Gran Bretagna, che è stata la grande continuatrice, in età moderna, della tradizione medievale veneziana – e dunque italiana – di traffici commerciali ed influenze politiche. Un’Europa che avesse saputo dare alla Gran Bretagna il ruolo che le spettava nel progetto europeo avrebbe potuto espandersi strategicamente sia per terra che per mare. Ma avrebbe dovuto risolvere l’equilibrio di potenza tra Terra e Mare attraverso un patto già cercato nel 1940.

Questo patto non c’è mai stato. E allora non deve stupire che la Gran Bretagna di Maastricht sia salpata una seconda volta nella sua storia, dopo il XVII secolo, ed abbia abbandonato i topi di terra al loro destino. Perché la convivenza tra Terra e Mare – e, cioè, fra pensieri strategici diversi e diverse percezioni dello spazio – è impossibile. Se temporaneamente questa convivenza si realizza, è sempre instabile e occasionale.

Questo è il senso storico della Brexit, come qualcuno su queste pagine ha capito perfettamente. E questa è la ragione perché, nel momento in cui la Gran Bretagna sarà uscita, l’unico suo interesse sarà lavorare per distruggere quel che resta di quel progetto imperiale europeo, che era poi nient’altro, come ha spiegato benissimo H. Kissinger (Ordine mondiale, Mondadori 2014), se non la riproposizione in età moderna del modello di Carlo V d’Asburgo da parte del pensiero strategico americano del dopoguerra.

E infatti, per qualcosa che non è una coincidenza della storia, l’altra grande potenza marittima che, dopo aver preso il dominio degli Oceani nel 1945, ha preso il dominio del Mediterraneo dai tempi di Suez, e cioè gli Usa, è oggi in rotta di collisione con quel che resta del progetto neoimperiale europeo. E cioè di un progetto che, in origine, era stato voluto proprio dagli americani, prima in funzione di contenimento dell’Urss e poi, dopo il 1989, per stabilizzare un lembo comunque rilevante – una regione – di Eurasia, partendo dal presupposto della realizzabilità di un mondo unipolare a dominio americano.

Gli anni della presidenza Obama-Clinton sono stati gli anni di massimo sviluppo di questo progetto neo-asburgico e l’euro ne è stata parte integrante. Così come ne è stata parte integrante, in Italia, la collaborazione di buona parte della nostra classe dirigente di quegli anni, che, per sopravvivere e governare un paese che doveva deindustrializzarsi in nome della teoria dei vantaggi comparati, si è alimentata del doppio rapporto con la centrale americana e con i suoi terminali europei, in Francia e Germania. Sono anni, questi, che, nel Mediterraneo, sono finiti. E sono finiti prima con la vicenda libica, e poi con la vicenda siriana, in cui la Francia ha mostrato tutta la sua incapacità di sostituire la Gran Bretagna come braccio marittimo di proiezione di potenza, nonostante iniziative come la Scuola di Guerra Economica (Ecole de guerre économique), concepita dagli enarchi per perseguire, in forme non militari, e a discapito dei vicini europei – tra cui l’Italia – gli interessi francesi.

E a buon diritto: in fondo il conflitto economico è il cuore del progetto europeo, come dimostra l’art. 2 del Trattato Unico Europeo, che fa della “forte competizione” l’obiettivo privilegiato dell’ordinamento dell’Unione, cui tutti gli altri devono subordinarsi. E la creazione, da parte della Francia, di un’istituzione del genere è solo un sintomo di salute e consapevolezza di sé da parte di uno Stato che non vuole rinunciare ad essere Stato, pur all’interno del “sogno” europeo. E che semmai sfrutta il “sogno” per continuare ad operare, sia pure nel modo tradizionalmente velleitario e sbilenco che gli è proprio, come uno Stato. Semmai sono stati i paesi o, meglio, le classi dirigenti di paesi come l’Italia, che si sono voluti fare satellite, a precludersi questa consapevolezza di organizzazione e, dunque, di azione politica. Accettando così, e anzi, accelerando, una sorte di declino che sarebbe stata evitabilissima. 

Oggi quel che resta del progetto europeo si è ridotto, come già nel 1943, all’area franco-tedesca e ai rispettivi satelliti, anche extraeuropei, come sono dei satelliti le ex-colonie del Franco Cfa, le cui popolazioni sono state fatte fluire in Italia negli ultimi anni. E’ un’area, quella franco-tedesca, tutta di Terra che oggi è sotto pressione dal Mare tanto da Ovest, con la Brexit, quanto da Sud, e cioè dal Mediterraneo, attraverso l’Italia. Non sono ricorrenze casuali quelle in corso, per il semplice fatto che la geopolitica ha una sua logica e che, come aveva capito benissimo Schmitt settant’anni fa, il mostro mitologico di Terra, il Behemoth, è destinato ad essere sempre strangolato dal mostro mitologico di Mare, il Leviatano.

Una volta che gli equilibri di potere americani si saranno definitivamente stabilizzati, sarà solo questione di tempo perché l’anglosfera di cui ama parlare G. Sapelli (Oltre il capitalismo, Milano 2018)  riprenda il controllo del piccolo gigante di Terra, e riduca a ragione uno strumento – in realtà un esperimento – di governo regionale sfuggito di mano ai suoi creatori. E che è stato venduto alle popolazioni di questa parte di Eurasia come “sogno europeo”, infarcendolo di richiami a Kant, alla “pace perpetua”, all’ideologia dei diritti in impossibile, perenne espansione, e ad altre amenità del genere.

Il sogno europeo l’abbiamo visto realizzarsi nella sua pienezza in questi anni di crisi, e l’abbiamo tuttora sotto gli occhi. E’ un sogno i cui simboli, retrogradi sul piano spirituale e oligarchici sul piano politico, sono quelli dell’investitura di Macron in Francia, con le sue piramidi e le sue stelle a cinque punte, e dell’inaugurazione del Gottardo, con le sue plebi lobotomizzate vigilate da un mostruoso occhio fiammeggiante. E’ il sogno descritto dalle parole di Mario Monti e Jacques Attali quando parlano di un nomadismo cosmopolita di ricchi, che sono a casa loro ovunque nel mondo, e di poveri, destinati a spostarsi ovunque nel mondo per realizzare il sogno della perfetta mobilità dei fattori della produzione: un sogno nel tratteggiare il quale lucidamente e onestamente si afferma che il problema che resta da risolvere sono gli stanziali non ancora sufficientemente poveri da volersi docilmente spostare. E’ questa la base di pensiero dei tanti moniti che periodicamente vengono rivolti da figure perfettamente intercambiabili, periodicamente chiamate ad occupare cariche di prestigio dalle quali mettere in guardia, al telegiornale della sera, contro i “tribalismi” nazionali per dissuadere chi ha preso ad avvedersi di questo progetto inquietante.

La Grecia è stato il più grande successo dell’euro, ci ha detto qualcuno, con grande onestà, in diretta televisiva nel 2011. Ed è normale che sia stato detto così apertamente: la propaganda di un sogno propagandistico non può essere tenuta nascosta. E infatti è stato detto tutto molto apertamente da sempre.

Per fortuna il Sogno sta finendo. O, meglio, ha iniziato a finire in Gran Bretagna la notte di San Giovanni del 2016 con il voto di un popolo che, da quando ha avuto senso parlare di Europa, ha maturato un alto senso della propria libertà ed indipendenza, semplicemente perché, controllando questo popolo il mare, nessuno è mai riuscito ad occuparne le terre.

Per l’Italia, che è una potenza regionale anfibia, che non ha mai scelto veramente fra Terra e Mare, e dunque non si è mai veramente compiuta, presa com’è fra un Nord manifatturiero ed esportatore, ed un Sud centro naturale del Mediterraneo, se ci sarà salvezza, questa salvezza verrà dal Mare.

Come sempre dal Mare, e dalle sue potenze, verrà, se verrà, la salvezza del resto d’Europa.