L’incubo peggiore che circola da qualche giorno fra i dirigenti democratici si è materializzato nelle parole di Marco Minniti, mentre nel salotto tv di Lucia Annunziata annunciava la propria candidatura alla segreteria del Pd: che nessuno dei sei candidati (che probabilmente saliranno almeno a sette) raggiunga alle primarie il 51 per cento dei consensi. In quel caso il nuovo segretario sarebbe scelto dall’assemblea nazionale. Sarebbe il trionfo dei giochini e dei caminetti, e la Caporetto di un partito che è obbligato a dimostrare di avere ancora radici popolari.
Le premesse per il caos ci sono tutte: sei candidati in pista, destinati a diventare almeno sette. Nicola Zingaretti è il front runner, il primo a scendere in campo, poi ci sono Francesco Boccia, Cesare Damiano, Matteo Richetti, e il giovane Dario Corallo. A loro si è aggiunto, attesissimo, Marco Minniti, mentre Maurizio Martina sembra prossimo ad annunciare la sua discesa in campo. Nessuno sembra oggi in grado di prevalere nettamente sugli altri.
La corsa per la segreteria è quindi ufficialmente aperta, ma tutto ciò è avvenuto lontano dalla sede naturale di quel dibattito, l’assemblea nazionale di sabato, in cui è andato in scena un teatrino dell’assurdo che da solo rende bene l’immagine dello stato confusionale del Partito democratico. Dal palco l’unico intervento politico è stato del segretario reggente pro tempore Martina, che ha annunciato le proprie dimissioni, aprendo la fase congressuale, senza svelare le proprie intenzioni. Poi, il nulla: nessun pezzo grosso del partito sul palco, nessun Gentiloni, o Delrio, o Boschi. E Renzi assente, anche se già si sapeva.
Il malessere della base si è materializzato sul palco attraverso la sfuriata della delegata emiliana Katia Tarasconi. Basta correnti, ritiratevi tutti è stato lo schiaffo allo stato maggiore, accusato anche di mettere cordoni di sicurezza fra se e i delegati comuni.
Senza dubbio è questa la plastica dimostrazione dello stato confusionale in cui versano i democratici a otto mesi dalla batosta elettorale del 4 marzo. Un’elaborazione del lutto destinata a durare almeno altri quattro mesi, visto che la data delle primarie è slittata verso i primi giorni di marzo, a un anno esatto dalle elezioni.
La posta in gioco è altissima: trovare una nuova identità alla maggiore formazione della sinistra italiana, oppure condannarsi al crepuscolo, all’estinzione. Un partito che a marzo ha perso nelle periferie ma ha vinto ai Parioli a Roma, nel centro di Milano e nel collegio della collina torinese rischia di passare per il partito dei ricchi. Riconnettersi con quello che dovrebbe essere lo storico humus della sinistra, ammesso che esista ancora, sarà un’impresa ardua.
È come se la discussione sulle ragioni della crisi del Pd e sulla sconfitta elettorale cominciasse solamente adesso. E’ come se otto mesi fossero trascorsi invano. In questo arco di tempo due sole sono state le decisioni rilevanti assunte dal partito: le dimissioni di Renzi dalla segreteria e il no a formare un governo con i 5 Stelle. Poi più nulla. Nessuna iniziativa politica vera, opposizione di maniera in parlamento, come pure nel paese. Nulla sul versante della ricucitura con i corpi intermedi (come i sindacati), o con le categorie produttive, o con i mondi dell’innovazione o del terzo settore.
La paralisi democratica ha probabilmente un nome e un cognome: Matteo Renzi. L’ex premier sa di non potersi ripresentare per la terza volta per la segreteria oggi, ma resta una presenza ingombrante forse anche perché non ha ancora presa una decisone definitiva sul proprio futuro. Da mesi si parla di un progetto politico autonomo, di cui in molti hanno visto i prodromi nei comitati civici lanciati nell’ultima Leopolda. E anche sulla corsa alla segreteria pesa l’ombra di Renzi, visto che non è chiaro al momento a chi andrà il suo sostegno, se a Minniti o a chi altro.
La corsa alle primarie durerà quattro mesi, e parte nella massima confusione, di candidature e di idee. Eppure di un’opposizione ogni democrazia, quella italiana compresa, ha un disperato bisogno. E oggi di opposizione al governo gialloverde se ne vede ben poca.