Quello che resta della sinistra italiana riesce sempre a stupire. Tra proclami che passano sotto silenzio, rottamazioni, rilanci, rifondazioni, e sempre alla “ricerca del popolo perduto”, il Partito democratico sembra aver deciso che terrà il suo congresso il 3 marzo 2019, praticamente a un anno esatto da una delle più sonore batoste storiche, elettorali, politiche e sociali degli eredi di quella sinistra che in Italia è stata sempre, nella sua maggioranza, anacronistica e che se un tempo guardava con disprezzo i riformisti, da un po’ di anni si dichiara apertamente riformista, anche se non c’entra nulla con quella nobile storia, e addirittura accarezza  idee neoliberiste. Un percorso tortuoso da Breznev ad Adam Smith e forse a Milton Friedman.



C’è un’inflazione di candidati segretari. Al momento sembrano sette, ma c’è chi scommette su prossime discese in campo. La notizia più ghiotta di questi giorni (si fa per dire) sembra quella dell’auto-candidatura di Marco Minniti, ex ministro dell’Interno nel governo di Paolo Gentiloni.

Tuttavia Minniti “viene da lontano”, per usare una terminologia togliattiana: giovane comunista, poi vicino a Massimo D’Alema quando è franato il Muro di Berlino, vari incarichi di governo nella cosiddetta seconda repubblica, soprattutto con deleghe ai servizi segreti.



In un modo inusuale e si potrebbe dire stravagante, come è ormai tutta la storia di questa sinistra nata dalle ceneri della caduta dell’Urss, dalla fusione tra sinistra cattolica ed ex picisti, Minniti ha comunicato la sua decisione non davanti ai compagni (vecchi tempi!), ma al quotidiano la Repubblica, il giornale che ha “abbracciato” mortalmente tutta la vecchia stampa di sinistra, per poi sostituirla e restare, anche lui, una testimonianza del passato.

Minniti ci teneva a scendere in campo, ma è stato spintonato da molti militanti e dirigenti del Pd. E’ l’ex ministro dell’Interno che si è accorto che “esisteva un problema di sicurezza legato all’immigrazione” e ha sfoderato tutta la sua grinta e la sua capacità nel frenare gli sbarchi indiscriminati, andando direttamente a trattare in Africa, con i libici e altri.



Questa sua azione non è stata però molto popolare all’interno del Pd. Ma sono in tanti a ritenere che per frenare lo spostamento a destra dell’elettorato e la corsa di Matteo Salvini, bisognava almeno analizzare questo collegamento tra sicurezza e immigrazione che sta nella testa degli italiani. Quindi si è pensato di tirare fuori dall’armadio il primo che si è opposto seriamente agli sbarchi incontrollati dei migranti. Il tentativo è quello di sostituire il “Salvini cattivo” con il “Salvini buono e umano”. Minniti appunto.

A ben vedere, questa è l’unica operazione politica (molto difensiva) che ha fatto il Pd dopo le terribili elezioni del 4 marzo. Il resto è rappresentato da un vuoto pneumatico di idee, oltre a tutto relegato tra un clima di litigate infinite.

Il minimo che un partito di sinistra come il Pd poteva fare, guardando anche la caduta della sinistra a livello mondiale, era quello di analizzare, in questi nove mesi passati, le cause della sconfitta clamorosa subita in Italia. E poi, pensando alla crescente impopolarità della sinistra a livello europeo, tentare di elaborare un nuovo patto sociale con il mondo tipico della sinistra: dai nuovi poveri agli operai precari, alla piccola e media borghesia che si è indebolita e che scalpita, sempre più insicura e nervosa. Forse si poteva anche azzardare un nuovo modello di sviluppo e magari un sistema capitalistico corretto, dopo tutto quello che è accaduto prima e dopo il 2008. In definitiva si poteva pensare a una nuova appartenenza da proporre.

Forse il Pd ci stupirà al congresso del 3 marzo prossimo, se sarà rispettata la data, ma intanto è partita una specie di “Opa”, termine finanziario che oramai conoscono tutti, lanciata dalle pagine del Corriere della Sera, sul Partito democratico. Minniti si è affidato  a Repubblica per le pubblicazioni, ma il “matrimonio” del nuovo Pd pensano di celebrarlo quelli che sono usciti dalla “notte degli Alesina viventi” sabato 17 novembre.

Questa immagine ironica è stata dedicata nel 2014 ai “sacerdoti” del liberismo e ai paladini dell’austerity dal premio Nobel Paul Krugman. E’ un’immagine irriverente, perché usa un eufemismo per citare gli zombies e forse per questa ragione, anche se è il titolo di un blog, pochi giornali italiani l’hanno riportata. E poi in fondo Krugman è un “semplice” Nobel per l’economia, come Joseph Stiglitz, e tanti altri che si ispirano al più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes, che è riuscito a far uscire America ed Europa dalla crisi del 1929.

Ma chi sono questi personaggi bocconiani che imperversano come i cattivi odontoiatri keynesiani predicando i “conti a posto”?

Dieci anni fa i “dioscuri” della “nuova economia” della povertà avevano pubblicato un libretto (da tenere per testimonianza indimenticabile di fallimento) dal titolo Il liberismo è di sinistra. Era una sorta di nuovo Corano intransigente contro chi solamente pensava a qualche minimo intervento di carattere statale. Sabato 17 novembre, gli indomabili Alberto Alesina e Francesco Giavazzi si sono riproposti con questo titolo in apertura del Corriere: “Il liberismo che serve ai deboli”. Un grande occhiello sopra il titolo nelle pagine interne sentenziava: “Anche da questa riflessione dovrebbe partire una forza come il Pd che si avvia al proprio congresso”.

Pure questo è un documento da conservare e mettere insieme ad altri ritagli, come quelli del prima e dopo-fallimento di Lehman Brothers, quando Alesina e Giavazzi scrivevano che “tutto si sarebbe risolto in due mesi” e dopo il fallimento ribadivano: “Tutto questo capita nel capitalismo. Ma non è successo nulla”. Del resto uno dei due si era improvvisato anche storico e aveva sostenuto che, in fondo, la crisi del 1929 era durata troppo perché ci si serviva di Keynes e delle sue teorie e non del liberismo.

Nell’ultimo articolo di sabato 17 novembre, il “duo Fasano” bocconiano dell’economia italiana prima loda il sistema e le riforme attuate, quasi si commuove di fronte alla globalizzazione così come è stata gestita, per poi cercare di lenire le ferite di pochi lettori: “Certo la globalizzazione ha creato problemi di aggiustamento nei Paesi ricchi, ma questi hanno le risorse per compensare i perdenti, facilitando le trasformazioni necessarie, senza chiudersi in se stessi”.

Alla fine, con il mercato, il capitalismo e il liberismo tutto si aggiusta. Potevano aggiungere che “alla lunga tutto si aggiusta”, così Keynes poteva rispondere dalla tomba come nel suo libro, più filosofico che economico, sul calcolo delle probabilità: “Alla lunga siamo tutti morti”.

Non sappiamo se anche in questa occasione il Pd andrà alla scuola “nella notte degli Alesina viventi”. Forse Giavazzi e Alesina non se ne sono accorti ma qualche politico di sinistra avrà considerato le seguenti cose: le diseguaglianze sono aumentate e nuovi economisti della London School e dell’Università di Chicago stanno facendo le prime proposte di ripristinare l’equità. Poi c’è la situazione politica e sociale dei tre principali Paesi fondatori dell’Unione Europea che hanno problemi gravissimi: l’Italia ha i populisti e i sovranisti al governo, la Francia sta scoppiando nonostante il “genio” Macron, e in Germania, a ogni elezione, la maggioranza di governo perde in media 20 punti percentuali. In Italia ci sono 5 milioni e mezzo di poveri e complessivamente 9 milioni di persone in difficoltà, in Francia ci sono centinaia di migliaia di dimostranti che protestano sulle strade per il rincaro del carburante, in Germania, la cancelliera e i socialdemocratici non ne azzeccano una e sono all’ultimo ballo.

L’unico Paese che sta veramente bene, tanto da essere il più ricco del mondo, è il Granducato del Lussemburgo, illuminato per 14 anni dal governo “geniale” di Jean-Claude Juncker. Servendosi del tax ruling, i lussemburghesi danno cittadinanza fiscale alle grandi multinazionali che arrivano a pagare (rispetto al 29 per cento che è stabilito dalle leggi del Granducato) tasse per lo 0,25 per cento sugli utili realizzati. E’ il regno dell’elusione e del furto contro i ceti più deboli, in contrasto con qualsiasi principio di equità a livello europeo e mondiale.

Il direttore d’orchestra del tax ruling è stato lo stesso Juncker che, quando è diventato presidente della Commissione europea, ha creato una commissione modellata sul Lussemburgo e su se stesso. Insomma una commissione contro i “paradisi fiscali” che ha un unico scopo: nascondere il più possibile i documenti. Una tragicommedia che spiega perché poi c’è tanta rabbia e confusione in quasi tutti gli angolo d’Europa e si finisca a votare per dei “poveretti” che la politica non sanno neppure che cosa sia.

Ripetiamo che non sappiamo come il Pd risponderà all’Opa, al  programma fornito dalla coppa Alesina&Giavazzi. In caso i suggerimenti bocconiani diventassero il programma di politica economica del partito, il Pd potrebbe conquistare voti in un paio di residenze ai Parioli e in qualche ricca casa di via Montenapoleone. Ma perderebbe senz’altro qualche chilometro di altre periferie.