Strane alleanze, si disegnano alla Camera, anzi non sono poi tanto strane. Ieri è stato approvato a scrutinio segreto un emendamento del decreto anti-corruzione che alleggerisce le pene per peculato. Da una parte — quella vincente — c’erano verosimilmente Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, insomma il centrodestra dato per morto fino a ieri. Dall’altra, sulla stessa lunghezza d’onda manettara, i 5 Stelle e il Partito democratico. Tutto questo non si può catalogare come un incidente. C’è un diverso sistema di pensiero in queste opposte scelte. Sia chiaro: il peculato — cioè usare per fini personali risorse e mezzi dello Stato — è un reato odioso. Ma la magistratura ha trasformato questa tipologia di reato in una falce che miete vittime per un cappuccino.
Salvini ha minimizzato. Non vuole e non può essere lui a far cadere il governo. Gli italiani hanno sempre punito chi rompe una coalizione per lucrare sulle elezioni anticipate. Ma — come dice il proverbio — “tanto tuonò che piovve”. A un certo punto è inevitabile che i diversi interessi e le diverse sensibilità non tanto dei parlamentari — i quali hanno per scopo precipuo quello di non perdere il posto — quanto delle opposte basi elettorali, confliggano fino alla rottura.
A quel punto però non è detto che non possa riproporsi l’ipotesi enunciata a suo tempo da Marco Travaglio (vate dei 5 Stelle) e da esponenti Pd come Michele Emiliano, cioè — senza andare ad elezioni — una maggioranza grillini-sinistra. I numeri ci sarebbero.
È vero che Tajani, riprendendo un vecchio pallino di Berlusconi, propone un altro tipo di governo: Lega, Forza Italia, FdI con l’aggiunta di non precisati “responsabili”, in sostanza 5 Stelle già cacciati e altri malvisti dai loro capi. Ma l’ipotesi è peregrina. Il soccorso di voltagabbana si paga nelle urne con molte perdite.