“La speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire bene, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente dalla sua riuscita”. Sono parole scritte da Vaclav Havel, il drammaturgo estensore del manifesto del dissenso cecoslovacco Charta 77, a lungo incarcerato dal regime comunista e poi presidente della Cecoslovacchia e della Repubblica Ceca.



E sono le parole scelte come esergo della tre giorni di formazione politica che si è svolta a Stresa da venerdì 15 a domenica 16 novembre organizzata da quattro differenti associazioni (la fondazione brianzola Costruiamo il futuro, le associazioni milanesi Nuova generazione e Italia al centro e la fiorentina Percorso) e significativamente intitolata “Insieme”.



Se il titolo individuava il metodo di questa anomala scuola di politica tra i cui relatori non figuravano uomini politici, il sottotitolo “Dal lamento alla responsabilità” indicava il passaggio di cui si avverte il bisogno nel momento culturale, sociale e politico che stiamo vivendo.

Le ragioni di questo passaggio ai 230 iscritti, di cui più della metà sotto i 35 anni, sono state offerte dalla proposta in dosi massicce di realtà di cui si sono fatti carico i relatori nelle sette sessioni di lavoro che hanno scandito il weekend.

Al desiderio manifestato da tanti degli iscritti – ho voglia di scendere dal balcone, per dirla con l’invito di Papa Francesco a Cesena – e che per alcuni è già realtà di impegno nelle istituzioni, dal consiglio di zona al Parlamento, dalla lista civica al Senato accademico, per altri ancora è attività sociale dalla scuola all’impresa, a questo desiderio, si diceva, si è risposto con un percorso di conoscenza della realtà in cui siamo immersi e che ha messo in moto la volontà fattiva di un impegno comune.



Ai lavori non erano presenti giornalisti, il clima che si voleva creare, e che si è creato, era quello della scuola e della libertà che la contraddistingue, nei giudizi espressi da chi parla e nelle domande di chi ascolta.

Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia, ha tralasciato i sondaggi (dei quali ha spiegato che non vanno presi come risultati elettorali ma che indicano una tendenza) per fotografare sociologicamente la realtà italiana, sottolineando soprattutto la grande distanza tra la consistenza effettuale di alcune situazioni e la loro percezione che le trasforma in emergenze: vale per l’allarme invasione come per il giudizio sulle banche, per i fondamentali dell’economia  come per l’immagine dell’Italia all’estero. Siamo meglio di come ci dipingiamo, occorre una classe politica che prenda le decisioni non in base alla rappresentazione della realtà servita dai sondaggi, ma nell’ottica di una costruzione fondata sui bisogni reali e strutturali.

Federico Ghizzoni, “bancario, non banchiere” ha tenuto a precisare, già amministratore delegato di Unicredit e presidente di Rothschild Italia, ha ricostruito, conoscendo dall’interno, gli anni della finanziarizzazione del credito spiegando con esempi concreti il perché della crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle banche. Ha poi reso intelligibili a tutti i legami tra la credibilità di un Paese, la sua stabilità politica, lo spread, i mutui e il credito alle imprese. Ha dato insomma sostanza al paradosso italiano di eccellenze imprenditoriali invidiate dal mondo che però non si trasforma in fiducia nel sistema Paese.

S’è detto prima che non c’erano politici, non è vero, ma i tre che c’erano non hanno parlato di politica. Nella serata di venerdì Giovanni Toti, Marco Bucci e Matteo Campora, rispettivamente presidente della Liguria e commissario all’emergenza dopo il crollo del ponte Morandi, sindaco di Genova e commissario alla ricostruzione, assessore a Genova, hanno raccontato che cosa vuol dire, da amministratori locali, trovarsi ad affrontare un’emergenza. L’invito è nato da un colloquio di uno degli organizzatori con Matteo Campora, giovanissimo assessore, che si è ritrovato improvvisamente sulle spalle l’assistenza alle famiglie delle vittime e l’organizzazione del funerale di Stato.

Nella sessione dedicata alla politica internazionale, “Nessun Paese è un’isola, così il mondo ci entra in casa”, Riccardo Redaelli, professore di Geopolitica in Cattolica, ha spiegato, con esempi nella demografia, nelle grandi infrastrutture e nei flussi migratori, lo spostamento dell’asse geopolitico dall’occidente e dall’Europa al blocco orientale con il suo baricentro in Cina. Mattia Ferraresi, corrispondente del Foglio dagli Stati Uniti e bloccato a Boston dalla nevicata che ha chiuso gli aeroporti, ha illustrato, documentandolo, l’apparente paradosso della continuità della politica estera americana nei confronti dell’Europa: l’irruento Trump, con altri metodi e per altri motivi, continua ciò che già fece Obama. Un’Europa forte, e soprattutto a guida di una nazione, sull’altra sponda dell’Atlantico non piace. Andrea Viero, responsabile Business development di Fincantieri, ha dato concretezza economica, commerciale e di relazioni internazionali al concetto che “nessun Paese è un’isola” illustrando il caso di Fincantieri, delle aste internazionali, delle relazioni che le sottendono e del sostegno che un’impresa di quelle dimensioni riceve o meno dalle istituzioni dello Stato quando si muove su scenari internazionali, e ovviamente delle ricadute economiche e occupazionale che questo comporta.

Sul lavoro, il vero strumento con cui combattere la povertà invece di cedere alla tentazione di assisterla, il confronto è stato tra Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, che ha smontato molti luoghi comuni sulla tecnologia che distruggerebbe il lavoro, spiegandone invece l’evoluzione e mostrandone le problematiche future legate alla demografia; Angelo Colombini, segretario confederale Cisl protagonista della trattativa sull’Ilva, che ha cercato di trattare la nuova immagine e il rinnovato ruolo del sindacato; e Francesco Pugliese, amministratore delegato della Conad, che ha raccontato l’esperienza personale e aziendale di un tentativo imprenditoriale che consideri la centralità del lavoro e del lavoratore.

Di scelte politiche e realtà economica hanno parlato il preside di Scienze politiche e sociali della Cattolica, Guido Merzoni, che si è soffermato soprattutto sulla crescente diseguaglianza e sulle sue cause, e Guido Gentili, direttore editoriale del Gruppo del Sole 24 Ore, che ha raccontato come è nata e come si è svolta l’intervista a Papa Francesco, sintetizzandone le novità di lettura della realtà economica e finanziaria e la decisività per una prospettiva di sviluppo legata al lavoro. Lorenzo Beretta, che ama presentarsi come “salumaio” ma è un salumaio da 805 milioni di fatturato, ha presentato la case history di un’azienda che resiste come impresa familiare per sette generazioni, internazionalizzandosi ma continuando ad avere come suo motore imprenditoriale il legame con il territorio.

Nel pomeriggio di sabato si sono svolti lavori a gruppi, e ha colpito il fatto che alcuni dei relatori hanno voluto partecipare da ascoltatori. In serata l’unico insuccesso dell’organizzazione: lo schermo gigante per Italia-Portogallo andato praticamente deserto a favore di capannelli di discussione e di dialogo che si sono spontaneamente formati dopo la cena.

La sessione finale, domenica mattina, ha visto prima quattro testimonianze: Benedetto Linguerri, giovane imprenditore romagnolo specializzato nel lancio di startup altrui finché ha deciso di rischiare in prima persona commercializzando prodotti alimentari di cooperative con lavoratori disabili; Cinzia Milan, professoressa di Varese che ha ideato e dirige una struttura per l’insegnamento dell’italiano e l’inserimento scolastico dei ragazzi stranieri; Francesco Grazzini, rappresentante degli universitari a Firenze con una singolare storia di “vocazione familiare” alla politica; Deborah Giovanati, assessore a educazione, istruzione, politiche sociali, salute e casa in uno storico quartiere popolare di Milano strappato alla sinistra a suon di voti.

Dopo di loro è intervenuto Giorgio De Rita, segretario generale del Censis con un affascinante percorso sull’affermazione nella nostra società del mito del rancore (quello che poteva essere e non è stato) e sull’importanza, soprattutto in politica, dell’immaginario collettivo come propulsore della crescita. Ha quindi preso la parola il teologo don Ezio Prato, che ha riassunto le tre possibilità di motivazioni per l’impegno dei cristiani oggi in politica: l’inserimento dei valori nella legislazione, la difesa delle opere sociali che quei valori incarnano, la testimonianza. Non ha consegnato prescrizioni, ha rigettato la palla e la responsabilità all’uditorio.

Le conclusioni di Maurizio Lupi non sono state conclusive: è iniziato un lavoro – ha detto – che ha messo insieme realtà diverse tra loro. L’importanza di questo lavoro è stata – come avevano detto negli interventi introduttivi Matteo Forte, Alessandro Colucci, Gabriele Toccafondi e Giuseppe Cappiello – il metodo, insieme, e il contenuto, un giudizio sulla realtà che ne ha approfondito la conoscenza incrementando la coscienza di una responsabilità. Il nostro problema – ha proseguito Lupi – non è lo strumento partito, le occasioni lo indicheranno e ognuno valuterà, la nostra esigenza è che nella confusione ci vuole un luogo che aiuti a respirare, da qualche parte ci vuole un punto di respiro e di giudizio altrimenti non riparte nulla. Questo punto di respiro, che non è necessariamente un punto di respiro partitico, è già fare politica.

Mi rendo conto che non ho scritto un articolo ma ho steso un resoconto. Ma forse è più utile così: i fatti sono la caparbia risposta della realtà alle nostre idee.