Da qualche giorno c’è una data cerchiata in rosso sull’agenda di Matteo Salvini. Non è l’8 dicembre, giorno in cui i leghisti sono convocati in piazza del Popolo a Roma. La giornata cruciale è quella del 13 dicembre, quando Confartigianato ha intenzione di riunire in piazza a Milano i ceti produttivi che della politica economica dell’esecutivo non ne possono più.
Alla chiamata alle armi degli artigiani dovrebbero aderire anche Confindustria e Confcommercio. Potrebbero esserci persino i sindacati, se dovesse portare frutti il seme lanciato dal presidente di Confindustria Veneto, Andrea Zoppas, intervenuto pochi giorni fa al congresso regionale della Cgil, per sostenere l’ipotesi che le parti sociali possano elaborare di comune accordo un piano per il lavoro. L’epicentro del malcontento è dunque in Veneto, dove raccontano che il governatore Luca Zaia debba affrontare ogni giorno le lamentele delle piccole e medie imprese del Nordest di fronte ai frutti dell’alleanza fra 5 Stelle e Lega.
Dal Veneto, alla capitale del salvinismo, Milano, per chiedere di voltare pagina, meglio ancora di staccare la spina all’esecutivo. Per amor di verità va detto che i segnali di irrequietezza dello storico elettorato leghista sono arrivati da tempo forti e chiari all’entourage del ministro dell’Interno, in particolare alla sua eminenza grigia, Giancarlo Giorgetti.
Si infittiscono i retroscena che attribuiscono al potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio perplessità sulla durata del governo. E non tutti trovano convincenti smentite. Sinora Salvini a chi gli chiedeva di staccare la spina ha opposto la ferrea legge dei numeri: la Lega ha il 17% dei seggi nell’attuale parlamento, Di Maio il 32%, impossibile fare miracoli.
I numeri dei sondaggi, per quanto aleatori, raccontano una realtà diversa: Lega primo partito con cifre superiori al 30%, grillini in crisi, staccati di almeno quattro punti. Si può resistere alla tentazione di passare all’incasso? Secondo Salvini sì, anche perché non c’è alcuna certezza che una crisi di governo conduca automaticamente al voto. Troppe, al momento, le incognite.
Il primo punto interrogativo sulla via delle urne si chiama Sergio Mattarella. Difficile immaginare che il Presidente del Repubblica rinunci a fare un tentativo di prolungare la legislatura. E lo schema alternativo all’attuale di cui si parla nei corridoi dei palazzi del potere è un gabinetto guidato dal presidente della Camera Fico, un esecutivo Pd-M5s ammantato da governo istituzionale. Uno scenario difficile, ma non impossibile, visto che Renzi farebbe molta più fatica rispetto a maggio a bloccare il suo partito.
Si parla anche di un’altra ipotesi, un governo di centrodestra, cui però servirebbe per nascere una frotta di nuovi “responsabili”, una cinquantina alla Camera e una trentina al Senato, da pescare (secondo Silvio Berlusconi) fra i delusi grillini e nei gruppi misti. La freddezza di Salvini è giustificata: si tratterebbe di un’operazione debole, di palazzo. In più Mattarella vorrebbe in anticipo vedere la scissione concretizzarsi in nuovi gruppi parlamentari, prima di prenderla in considerazione. Non a caso tra i grillini si parla con sempre maggiore insistenza del rientro in Italia del sudamericano Di Battista, nella convinzione che questo possa frenare le spinte centrifughe. L’orizzonte per tutti rimane alle elezioni europee del 26 maggio. Un eventuale voto politico si può collocare prima, in abbinata, o al massimo a giugno. Non oltre.
In questi giorni Salvini sembra prendere tempo e lavorare al lento logoramento dell’alleato grillino. L’apertura alla limatura del 2,4% del rapporto deficit/Pil previsto dalla legge di bilancio è l’ultimo segnale. Il “nessuno è attaccato ai decimali” pronunciato da Salvini vuol dire mostrare quel realismo e quella flessibilità nella trattativa con l’Europa che le categorie produttive invocano. Se, ad esempio, ritardare di qualche mese il superamento della legge Fornero e il reddito di cittadinanza dovesse consentire di evitare la procedura d’infrazione, recuperando quattro o cinque miliardi da destinare a investimenti, l’elettorato leghista tirerà un sospiro di sollievo, Di Maio no. Ma potrebbe non avere scelta.
Siamo quindi al gioco del cerino, al rimpallo di responsabilità, con i grillini che sembrano più impacciati dei colleghi. E questo almeno sino a quando Salvini, che sembra in posizione di forza, non deciderà che i tempi sono maturi. E Mattarella si convinca che le elezioni sono il male minore per il paese.