Neppure nel regno di Kakania, raccontato dal grande Robert Musil, si viveva in una così effimera speranza di futuro come nell’Italia del 2018 e nella stessa Unione Europea, sorretta dall’impareggiabile Jean-Claude Juncker, il formidabile rappresentante di due “vincenti” in disgrazia: il francese Emmanuel Macron, che staziona ormai prevalentemente nel regale bagno dell’Eliseo, e la cancelliera Angela Merkel, presa metaforicamente a schiaffi qualche giorno fa dal leader della sinistra tedesca, la Linke, Oskar Lafontaine.
Partiamo dall’Italia, dove Matteo Salvini riesce a spiazzare manovre “d’alto bordo” condotte dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. C’è in ballo la correzione della manovra, con due decimali circa da sistemare (numeri decisivi per il futuro dell’economia e dell’Unione) e Salvini manda tutti a quel Paese: non si tocca il deficit fissato al 2,4% del Pil, anche se si continua a trattare con la Commissione europea. Il lettone Valdis Dombrovskis (altro perdente epico) è costernato, il francese Pierre Moscovici impreca ma cerca di sorridere, Juncker si consola con qualche “cicchetto”.
Ma la sostanza italiana è la spaccatura che si sta verificando, giorno dopo giorno, nella maggioranza “contrattuale”, con la sinistra dei 5 Stelle pilotata da Roberto Fico e da qualche altro (forse lo stesso Grillo o Casaleggio?) che mostrano segni di nervosismo, mentre Luigi Di Maio sembra più impegnato in dispute giudiziarie con i giornalisti per casi familiari. Sequenza ormai delirante degli ultimi tre anni di politica italiana!
C’è naturalmente il problema della manovra di bilancio da affrontare e sarà una maratona di votazioni e di tappe forzate, tra lance che copriranno i passaggi dei protagonisti dal 29 novembre in Commissione bilancio della Camera fino a oltre Natale e forse anche Capodanno. Il primo di febbraio è il termine ultimo.
Ma le date che incalzano si accavallano ad altre scadenze, dove già si delineano differenze sostanziali e prese di posizione che non promettono nulla di buono per la serenità del governo giallo-verde.
L’11 dicembre ad esempio, a Marrakech ci sarà un grande summit sull’iniziativa dell’Onu, il Global Compact for migration, e il leader leghista Salvini ha già annunciato che l’Italia non ci andrà. Il presidente del Consiglio Conte si arrampica un poco sugli specchi e affronta il problema con una dichiarazione di questo tipo: “Si deve firmare un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti dai cittadini. Riteniamo opportuno fare prima un dibattito in Parlamento e rimettere le scelte definitive al termine di tale discussione”. Mentre Conte, dopo la dichiarazione, si asciuga la fronte dal sudore, il M5s si spacca sostanzialmente tra la sinistra “fichiana” e la destra “dimaiana”.
In sostanza, nell’Italia rassicurata dalla scomparsa della “prima repubblica” e dalla “pulizia” operata da una coraggiosa magistratura, fuori dagli schemi della giustizia occidentale, si vive nel regno dell’incertezza, con l’obiettivo di raggiungere le elezioni europee di maggio, ma con l’incognita che tutto può saltare da un momento all’altro. Magari in occasione di un articolo della manovra di bilancio o di un confronto internazionale sul grande problema dell’immigrazione.
E l’opposizione? L’ex grande sinistra confluita, dopo varie peripezie, nel Partito democratico? Si dice che tale opposizione esista, ma alcuni ne dubitano. Si dice che si farà un congresso il 3 marzo 2019, ma molti pensano che ci sia un accordo quasi generale per non perdere tempo in un congresso. Si dice che ci sarà un nuovo segretario e questo appare più credibile. Ma il tutto dovrebbe avvenire dopo una gara a cinque o forse a sette, con una successiva improbabile compattezza di partito che lascia un po’ tutti perplessi.
L’opposizione berlusconiana è invece un optional, che non viene neppure presa in considerazione.
In tutti i casi, grande maestra di pensiero economico, giuridico e politico, l’Italia esporta quest’ormai congenita incertezza, con la filosofia di un tran-tran della vita, giorno per giorno, al resto dell’Europa. Dopo l’investitura fatta da Piero Fassino e di altri suoi compagni (Dio ce ne scampi!) di Macron a leader di una nuova forza di sinistra europea, la Francia vive giorni di ansia e instabilità. A Parigi e in tutto il Paese non si manifesta solo contro l’aumento del prezzo del carburante, ma si contesta per le strade la politica del nuovo e giovane presidente, sceso ormai a una popolarità e a un consenso pari a quello di François Hollande prima delle ultime presidenziali francesi, quando, con un minimo di buon gusto, decise di non candidarsi più e di sparire dalla circolazione.
Nonostante il “rispetto delle regole” incarnato da Pierre Moscovici, la Francia dovrà passare giorni per nulla facili prima e dopo le feste di Natale.
Poi c’è la grande Germania, con la signora cancelliera che si ritira. Qui c’è una data canonica, il 7 dicembre, giorno importante per noi milanesi devoti a Sant’Ambrogio e fanatici della Scala. Là, tra le brume e del Reno e dell’Elba, la Cdu, il partito dei cristiani democratici e sociali, sceglie il nuovo presidente dopo la Merkel che ha annunciato le dimissioni.
Ci sarà continuità di linea politica? Non pare proprio, perché si affaccia un candidato truce per Angela Merkel: niente meno che un filo-americano del calibro di Friedrich Merz, collegato o partecipante anche al grande fondo finanziario BlackRock. Merz avrebbe l’appoggio di tutti gli anti-Merkel della Cdu e segnerebbe una grande svolta a destra, con evidenti nuovi rapporti con gli Stati Uniti. Ma, se si verificasse un fatto del genere, che cosa accadrebbe dell’attuale coalizione Cdu e Spd, cioè la storica alleanza tra cristiano democratici e socialdemocratici?
Anche perché il leader della Linke, Oscar Lafontaine, un tempo uomo di punta della Spd, spara a zero sulla politica tedesca della cancelliera tanto ben voluta in diversi ambienti italiani.
Dice Lafontaine: “Chi scava una fossa per gli altri, alla fine sarà lui stesso a finirci dentro. Questa saggezza popolare viene confermata ancora una volta da Angela Merkel. La Germania vende agli altri Paesi più beni di quanto non ne acquisti da quei Paesi. La Germania quindi pensa innanzitutto a se stessa ed esporta disoccupazione. Questo è il motivo per cui la metà del mondo si lamenta per il nazionalismo dell’export tedesco”. Sono le parole più lievi di Lafontaine contro la politica della Merkel. Il resto ha toni di una durezza inusitata.
Nel regno della grande confusione, nella Kakania impazzita, mettiamoci infine ancora la data dell’11 dicembre. La leader tory Theresa May sottoporrà al Parlamento di Westminster le 600 pagine dell’accordo per l’uscita formale della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Tutto a posto? Ci sono un mucchio di problemi tra gli schieramenti politici e la possibilità concreta che la premier del Regno Unito venga sfiduciata. Le conseguenze? Veramente imprevedibili.