Recita un antico detto che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine. Saggezza popolare che sembra adattarsi a pennello al momento travagliato che la coalizione di governo sta attraversando. Le contraddizioni di due formazioni politiche lontanissime fra di loro stanno venendo alla luce una dopo l’altra, e la domanda che sorge spontanea è se l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte potrà o meno sopravvivere a tutto questo.



Non sembri esagerata questa domanda, perché le linee di frattura sono numerose. E sembrano aumentare di giorno in giorno. A fine maggio, a chi criticava la distanza fra loro, Salvini e Di Maio rispondevano che tutto si sarebbe risolto grazie alle virtù taumaturgiche del contratto di governo: quel che sta nel contratto si farà, quel che è fuori dal contratto non si farà.



Sembrava la panacea di tutti i mali, ma non è affatto così. Prendiamo il caso del giorno, quello della prescrizione. Nel contratto si dice che “È necessaria una efficace riforma della prescrizione dei reati (…) per ottenere un processo giusto e tempestivo ed evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia”. Intenzione magari lodevole, ma espressa in modo vago. Vuol dire bloccare del tutto la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, o si possono immaginare soluzioni meno drastiche? E poi, si può fare una riforma tanto impattante con un semplice emendamento al disegno di legge anticorruzione? Secondo i 5 Stelle sì, secondo i leghisti no.



Alla fine toccherà a Salvini e Di Maio, come al solito, mediare in un vertice di maggioranza, magari con la consulenza del presidente del Consiglio Conte.

Stesso metodo sulle altre partite aperte nella maggioranza, in primo luogo il decreto sicurezza, prioritario per la Lega. Qui poi si inserisce un problema interno ai pentastellati, che sulle norme sulla legittima difesa sono profondamente divisi. Allora, la decisione di porre la questione di fiducia sul provvedimento diventa una vittoria di Di Maio, che in un colpo solo raggiunge due obiettivi: ricompattare i suoi, a cominciare dal comandante De Falco, e evitare che il governo si salvi grazie al soccorso dei voti di Fratelli d’Italia e anche di Forza Italia. Un fatto politico di enorme impatto, che avrebbe spostato ancor più verso Salvini la barra dell’esecutivo. Ma che soprattutto avrebbe messo il vicepremier grillino in ginocchio. Pronto a essere processato dentro un Movimento che ribolle, anche per via di sondaggi sempre più negativi.

Il metodo stile prima repubblica dei vertici di maggioranza fra i due consoli del governo può essere risolutivo su tante partite, ma difficilmente lo sarà su tutte. La più delicata, anche perché al di fuori del contratto di governo, è quella europea. Sul tavolo di Bruxelles il governo appare sempre più isolato, come dimostra l’ultimo scambio polemico alla vigilia dell’Eurogruppo fra il commissario Moscovici e il premier Conte. Al responsabile europeo per gli affari economici e monetari che ammoniva come l’Italia non potesse fare tutto quel che voleva, il presidente del Consiglio ha consigliato maggiore cautela. Per tutta risposta Moscovici ha avvertito di riconoscere solo in Tria il suo interlocutore. Una questione non solo di forma (Tria è — come dire — il pari grado del commissario europeo), ma molto di sostanza.

Sarà difficile per il governo non dare un segno di buona volontà a Bruxelles, magari una limatina a quel 2,4% diventato ormai il pomo della discordia. Anche su questo i due partner di governo la pensano in modo opposto: Giorgetti possibilista, Di Maio pasdaran della linea dura.

Prescrizione, legittima difesa, abusivismo edilizio a Ischia, Tav, Tap, Ilva, terzo valico di Genova, Pedemontana lombarda, Europa: troppe questioni dividono in questo momento leghisti e pentastellati. Questioni politiche, di sostanza. Due visioni del mondo lontanissime, quasi antitetiche. Saranno i due leader a decidere se si può continuare ad andare avanti litigando con tutto. A qualcuno, a Salvini in particolare, potrebbe non convenire. Oppure potrebbero essere il caso a segnare le sorti del governo, perché — come recita un altro detto popolare — a tirar troppo la corda, finisce per spezzarsi.