Se si chiede a un direttore di giornale quante copie in più porta un titolo di prima pagina sulla riforma della giustizia, la risposta sarà sconsolata: zero. Se invece si domanda a un politico quali rischi comporta toccare gli equilibri (o i disequilibri) nell’assetto giudiziario, la replica sarà l’opposto: altissimi. La giustizia è una delle questioni più sensibili e più scivolose. Lo è stata per i governi di Silvio Berlusconi, naturalmente; ma anche per la breve parentesi di Mario Monti (legge Severino), per la meteora di Enrico Letta (quando il Pd estromise dal Senato il Cavaliere dopo la condanna), per Matteo Renzi (riforma delle intercettazioni). Chi tocca le toghe rischia sempre grosso.
Stavolta la componente grillina del governo ha pensato una riforma che liscia il pelo alla magistratura, cancellando la prescrizione, avallando le lentezze procedurali e consegnando di fatto ai pm la selezione della futura classe politica, e in parte anche della presente. Giustizialismo allo stato puro. E la giustizia è diventata il primo vero terreno di scontro con l’alleato leghista. Matteo Salvini, pragmaticamente, ne ha fatto merce di scambio con il decreto sicurezza, passato ieri con la fiducia al Senato. La fiducia non era un argine ai pericoli posti dall’opposizione, che non esiste, ma uno strumento per mettere alle strette l’alleato, per evitare agguati interni. Un po’ meno prescrizione a te e mano un po’ più pesante con gli immigrati a me. Il ministro dell’Interno voleva il suo decreto e l’ha avuto. Poi ha fatto passerella da Barbara d’Urso (Mediaset), Bruno Vespa (Rai) e Lilli Gruber (La7), gigioneggiando e coprendo l’arco costituzionale delle televisioni nazionali. È stato il Salvini-day, che la palese freddezza grillina non è riuscita a scalfire. Oggi è un altro giorno, ci sarà un vertice con il premier e si vedrà come aggiustare. E se per caso insorgessero difficoltà nella conversione del decreto alla Camera, e quindi si andasse alla rottura, sarà ben chiaro chi ne avrà la responsabilità.
A Palazzo Madama non c’era Di Maio, non s’è visto il premier Conte, il ministro Toninelli si è seduto tra i banchi dei senatori e non sugli scranni del governo. Ma i movimenti sono stati anche altri. Quelli di Fratelli d’Italia si sono astenuti, segno di benevolenza verso il provvedimento. Forza Italia è uscita dall’aula: non poteva votare né a favore, né contro (per anni, a fianco di Bossi e Maroni, ha sostenuto le stesse battaglie sull’immigrazione incontrollata oggi combattute da Salvini), né astenersi per non appiattirsi sul partito della Meloni. Ha scelto la “quarta via”. Profilo bassissimo.
La linea della non belligeranza verso la Lega si coglie anche da altri particolari. Berlusconi aveva annunciato la sua presenza al convegno del Ppe a Helsinki ma non s’è visto: meglio evitare i contatti con i giornalisti. A rappresentarlo c’era Antonio Tajani, che però è presidente del Parlamento europeo prima che numero due di Forza Italia. Nessuno dei suoi è intervenuto e non si sono sentite levate di scudi contro populisti e sovranisti. Una grande prudenza domina i rapporti con la Lega in vista delle elezioni europee, in cui Salvini mieterà un largo consenso in Italia che però potrebbe non avere peso all’Europarlamento se il vicepremier non trovasse spalle più larghe a sostegno. Nel Ppe Salvini ha già un interlocutore, l’ungherese Orbán, e Tajani è pronto ad affiancarsi. Ma per la Lega potrebbero aprirsi anche le porte del gruppo dei Conservatori e riformisti, che oggi fa da sponda al Ppe. Partita apertissima, insomma, che impone estrema cautela. Al momento per Forza Italia meglio non presentarsi in aula.