Donald Trump mostra subito i denti e un sorriso da discutibile “simpatica canaglia”, dopo le elezioni di midterm. Liquida innanzitutto il suo ministro della Giustizia, troppo tenero nella battaglie istituzionali e nelle probabili inchieste future. Poi replica alle proposte di impeachment, che i giovani democratici eletti alla Camera dei rappresentanti stanno preparando e gli promettono, spiegando che farà indagini su tutti. Infine irride il partito della mancata “onda blu”, facendo aperte e imbarazzanti cortesie alla settantottenne Nancy Pelosi, una leader democratica che “spacca” notoriamente il suo partito, e invitando i suoi repubblicani a votare proprio per lei come speaker dei prossimi anni.
Chi sperava in un ridimensionamento di Trump, o lo ha addirittura pronosticato con la consueta sicumera pseudo-intellettuale, dovrebbe andare a nascondersi.
In queste elezioni di midterm il risultato raggiunto da Trump è senza dubbio positivo, perché ha mantenuto sostanzialmente la sua forza, ampliandola in Senato, compensando in questo modo la sconfitta alla Camera dei rappresentanti.
Poi, pur perdendo alcuni Governatori in Stati importanti, ne ha guadagnati altri in Stati altrettanto importanti. Ma il fatto più rilevante, in questo passaggio elettorale di metà mandato, è soprattutto il messaggio che Donald Trump comunica non solo agli americani, ma a tutto il mondo: non è un presidente uscito per caso dalle urne del 2016, non è un inquilino della Casa Bianca arrivato per una strana combinazione o per una sorte maligna, non è un incidente della storia. È il rappresentante di questa America, degli Stati Uniti del 2018.
Inoltre, in questo momento, piaccia o non piaccia, per i suoi avversari interni ed esterni, Trump è il capofila ufficiale di una “rivolta“ politica, di un sommovimento sociale, che lui sa cavalcare tra balle, contorsioni, gaffe, ripensamenti, aggressività e successi in campo economico che non sembravano più scontati dopo la doccia gelata della crisi del 2007 e la stentata ripresa degli anni successivi. Forse Trump è capace anche di mascherare questa rivolta, come in un’interpretazione di uno show televisivo.
Ma il fatto è che Donald Trump interpreta, senza alcun dubbio, il prodotto della grande confusione politica e sociale di questi anni. Quello che si dovrebbe almeno riconoscere è che la sua figura impersona la testimonianza reale e concreta della pochezza e degli errori del vecchio establishment, di quelli che hanno predicato un’impossibile e assurda fine della storia, di tutti i rappresentanti di una politica che si è sempre più allontanata dai problemi delle persone e ha cercato soprattutto di mediare, maldestramente, interessi generali con le ragioni della finanza “regina” del mercato, dei numeri, degli algoritmi e dei “conti a posto” nella finanza pubblica, mentre in quella privata ha garantito spazi enormi e libertà al limite dell’assurdo. Quasi con un gioco delle tre carte, Trump si è inserito nel parapiglia, nella grande baldoria confusionaria e ha fregato tutti gli avversari.
È certo che non sarà Trump a risolvere il grave problema di una democrazia rappresentativa che è in crisi in tutto il mondo. Non sarà di certo Trump che può riparare al danno delle diseguaglianze sociali, che sono ormai dilaganti in tutto il mondo occidentale. Ma il personaggio che sta alla Casa Bianca, leader della più grande potenza del mondo, rappresenta l’allarme più immediato del disordine mondiale e della più grave crisi del capitalismo in salsa ultra-liberista, che altri hanno procurato con un’incoscienza incredibile, dimenticandosi completamente dell’“arte del possibile”, cioè della politica, che ha la vocazione di cogliere i momenti storici e di saperli interpretare.
Che cosa riserveranno questi prossimi anni, davanti a questo allarme e alla bancarotta della classe dirigente della “politica al servizio della finanza”? Soprattutto nei rapporti tra Stati Uniti e un’Europa imbambolata nelle sue controversie, nella sua leadership tedesca e nella sua stupida dottrina dell’austerità che cosa ci riserverà il futuro?
Non c’è dubbio che, dopo il G7 del giugno scorso in Québec, quando Trump ha preferito incontrarsi con il leader della Corea del Nord piuttosto che ascoltare i discorsi di rappresentanti di Paesi più importanti, si è assistito in diretta alla rottura clamorosa tra i piani del presidente Usa e le esigenze dell’Europa, soprattutto della Germania che si è auto-promossa leader.
A questo punto, il risultato delle elezioni di midterm ha fatto suonare il gong della sfida e ha portato in Europa, che “tifava” per una sconfitta di Trump, un’inquietante e nervosa attesa sulle prossime mosse del presidente americano.
Il consolidamento al Senato permetterà a Trump di avere mano libera in politica estera e quindi di operare ancora di più per il ridimensionamento a livello mondiale dell’Unione Europea. Si può dire, guardando al passato, che ci sia stata un’escalation impietosa in senso negativo nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico.
Se ai tempi di Kissinger la visione americana era di affidare l’Europa alla leadership tedesca, fu poi a Maastricht che venne partorito un meccanismo poco convincente, da rivedere e riformare. Uomini di grande capacità come Kohl, Mitterrand e Delors smussavano gli spigoli, i contrasti e invitavano a una collaborazione costruttiva. Con tutta probabilità sarebbero arrivati a una riforma nel giro di poco tempo. Poi si è affermato, in modo ancora più aggressivo, il pensiero unico neoliberista, che andava di pari passo con la cocciutaggine della signora Angela Merkel sull’aumento della produttività europea “a tutti costi”, soprattutto a discapito dei Paesi del Sud. Di fronte a questa scelta della cancelliera tedesca, c’è stato solo un barcamenarsi di Barack Obama, che alla fine aveva forse preso anche le distanze dall’Europa tedesca.
La grande crisi del 2007 ha fatto giustizia di tutte le manchevolezze e le scelte sbagliate, con una politica economica che ha portato surplus insopportabili in Germania (anche rispetto agli Usa), che ha creato come reazione il cosiddetto “sovranismo e populismo” attuale.
Così Trump ha avuto la strada spianata con la politica dei dazi, con la riduzione della pressione fiscale, con il nazionalismo economico e con la dichiarata apertamente sconfessione di questa Europa a guida tedesca, quella della politica di Angela Merkel e degli europei che la seguono.
Forse gli europei, più che pensare agli ipotetici impeachment di Trump, avrebbero dovuto pensare a salvaguardare l’Europa dalla diffidenza americana. Non lo hanno fatto e adesso si preparano probabilmente a una dura resa dei conti a livello internazionale, con problemi nel commercio mondiale e nella crescita economica non indifferenti.
Si può solo al momento pensare che la signora Merkel sia ora veramente incamminata sul viale del tramonto. Forse, così come fece Elisabetta I d’Inghilterra, avrebbe dovuto leggere il grande segretario fiorentino Niccolò Machiavelli, che insegnava che, quando un nemico è troppo forte, l’unica soluzione è quella di abbracciarlo. Purtroppo la “grande casalinga” di Lipsia su Donald Trump ha dimostrato di non capirci nulla.