Salvini punta a far saltare la maggioranza e tornare al voto per incassare l’enorme crescita del consenso che gli accreditano i sondaggi? Magari votando a maggio non solo per il rinnovo del Parlamento europeo ma anche per quello italiano? Non è difficile tentare una risposta a questa domanda: è inutile. Perché la palese leadership del personaggio-Salvini sulla mucillagine balbettante dei suoi occasionali compagni di coalizione – i Cinquestelle – e il brodo primordiale in cui nuotano quest’ultimi, perennemente sommersi da congiuntivi e commi di legge ugualmente ingestibili, non bastano a orientare una risposta. È chiaro che i Cinquestelle sono e restano un movimento “di lotta” e non “di governo”.



Localmente, hanno all’attivo un’unica esperienza valida e stagionata, quella di Federico Pizzarotti a Parma, non a caso trasformatasi in una lista civica dopo la rottura del bravo sindaco coi vertici del suo Movimento che ne pretendevano una fedeltà incompatibile con le esigenze dei cittadini. A Roma la Raggi ha deluso tutti, a Torino la Appendino è ormai una ex-leader. Insomma, alla prova dei fatti localmente il Movimento non sta più incrementando i consensi. E a livello nazionale, la baraonda implodente del consenso pentastellato è sotto gli occhi di tutti.



Invece la Lega, il più antico partito italiano sulla scena politica, è un partito “di governo” (anzi: malgoverno) nazionale da 25 anni (1994, primo esecutivo Berlusconi), e guida il governo amministrativo in regioni chiave come Lombardia e Veneto e partecipa o conduce altre giunte pure importanti come Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Molise, Sicilia e Provincia autonoma di Trento. Sa come si fa, anche a fare pasticci, ovviamente, e l’ombra di Bossi e Belsito è lì a ricordarlo agli italiani. Però è un partito, non una maionese impazzita.

Il voto di base nordista e un po’ xenofobo non supera il 5% del consenso leghista totale, però è granitico. Il voto incrementale nasce dal deflusso degli ex elettori di Forza Italia, orfani dell’evaporazione del Cavaliere, dagli adepti della leadership del Capitano Salvini, dalla linea dura contro l’immigrazione clandestina e dal rigetto contro il politicamente corretto che si è (finalmente) infiltrato in vaste fasce dell’opinione pubblica, conducendola magari al barbaro gusto opposto, quello per il “me ne frego” salviniano, che ne riecheggia altri tristemente schedati degli Annali del Paese.



Insomma, non c’è dubbio che il governo logora i Cinquestelle molto più che la Lega. Proprio per questo, però, difficilmente sarà Di Maio a premere il bottone dell’autoaffondamento. Da un ritorno alle urne avrebbe tutto da perdere. Mentre per converso Salvini avrebbe tutto da guadagnare: a patto, però, che la scelta di votare non potesse essergli ritorta contro durante una campagna elettorale che sarebbe inevitabilmente virulenta e aggressiva.

Davvero: Salvini, potendo, rivoterebbe domani, si scrollerebbe di dosso come un cavallo imbizzarrito fa di un fantino incapace, la mosca-cocchiera di Di Maio e ben volentieri guiderebbe una qualsiasi maggioranza risultasse, dal nuovo voto, componibile con i cocci di Forza Italia, le milizie di Fratelli d’Italia, i conservatori renziani delusi dal Vanesio di Rignano e qualche compariello d’accatto che al Sud si rimedia sempre con un po’ di promesse di contraccambi. Ma non può dar da vedere che è lui a rompere i patti: anche perché, e gli va detto come complimento, tende a mantenere gli impegni politici (quelli programmatici non ne parliamo, ne hanno presi tutti troppi e senza fare i conti prima, quindi ora neanche Salvini ha i soldi per mantenere i suoi…).

Inoltre, a scoraggiare l’ipotesi di un voto anticipato c’è la massa di manovra comunque costituita dagli eletti, che remerebbero contro in tutti i casi, per non vedersi sottrarre seggi faticosamente guadagnati alle ultime elezioni: è umano, in caso di pericolo ci sarebbe una vasta platea di resistenti in nome della pagnotta. Nella quale un qualunque governicchio del Presidente che senza alcun dubbio Sergio Mattarella dovrebbe cercare di instaurare prima di sciogliere le Camere, troverebbe agevolmente supporto.

Dunque, che Fico si dissoci da Di Maio e che dall’estero il Tupamaro de’ noantri Di Battista continui la sua predicazione a metà tra Che Guevara e Topolino, è totalmente irrilevante. Dopo sei mesi dal voto è di solare evidenza che il Movimento non solo manca di leadership consolidate ma non sa letteralmente da che parte andare, schiacciato com’è da un livello impensabile di pressapochismo, improvvisazione e di culto del dilettantismo che ha sempre – purtroppo – avuto adepti nella politica italiana, prateria di ignoranti sin dal 1945, ma mai in proporzioni così massicce.

In questo senso, le prospettive storiche del Movimento così com’è stato fino a oggi sono segnate: o cambia del tutto, ma allora si rimette in gioco ex-novo, a rischio comunque di perdere verticalmente consensi; o li perde per manifesta incapacità di governo. Talmente manifesta che non rileva sottolineare le enormi lacune che pure i leghisti stanno dimostrando: da una parte si hanno giocatori scadenti, dall’altra nessuno scende davvero in campo. La Lega vince a tavolino, per abbandono dell’avversario.

E dunque le promesse della Lega – flat-tax e quota 100 – saranno a loro volta quasi del tutto deluse, ma restano comunque argomentate e sostenibili, sia pure a fatica, persino in Europa; le promesse dei Cinquestelle, anche quelle teoricamente più difendibili come il reddito di cittadinanza, vengono lasciate totalmente prive di argomentazioni tecnico-professionali a supporto e si prestano a essere spazzate via con uno starnuto. La disillusione dell’elettorato pentastellato non è una probabilità, è una certezza. Resta da capire quale fetta di esso opterà per guardare altrove e quale per fidarsi dei nuovi, cioè degli esclusi di oggi, dei Di Battista & C.: ma comunque solo per andare quanto prima incontro a un ancor più cocente disinganno.