Imperativo categorico, chiudere. E così è stato. L’ipotesi della rottura non poteva neppure essere presa in considerazione. Perché rottura voleva dire procedura d’infrazione europea, uno scenario da incubo per tutti, per il governo italiano, come per la stessa Commissione di Bruxelles. Ecco perché a Palazzo Chigi la luce è rimasta accesa per quasi tutta la notte. Prima un vertice ristretto fra Conte e i suoi vicepremier, poi la riunione allargata a Tria e ai viceministri economici, continue voci su piccoli passi avanti fatte filtrare ad arte.



Clima teso, tesissimo, sospetti incrociati di colpi bassi fra i due alleati, ma impensabile immaginare un finale diverso dall’intesa, sempre più vicina man mano che le ore passavano. E questo nonostante nella casta degli eurocrati vi fossero alcuni che all’Italia volevano farla pagare sino in fondo. Non Juncker, che ha avuto nelle ultime settimane il ruolo di cerniera fra falchi e colombe. E non la Merkel — con cui Conte ha parlato a lungo al vertice europeo —, che preferirebbe evitare di aprire un altro fronte, dopo i gilet gialli francesi.



Proprio Conte si è intestato la mediazione su tutti i fronti, interno e comunitario, pressato anche dal Quirinale. Non è stato facile fare digerire ai suoi due vicepremier la retromarcia, e trovare il modo di limare i conti della manovra, rendendo più stringenti i criteri per le due misure-manifesto, reddito di cittadinanza e pensioni a quota 100, senza darlo troppo a vedere. E di sponda a Conte e a Mattarella ha giocato il ministro Tria, che più volte negli ultimi tre mesi è stato sul punto di dimettersi, ma a cui è stato chiesto un supplemento di pazienza almeno sino al termine del cammino parlamentare della legge di bilancio.



Un minuto dopo il sì del parlamento alla manovra e la (scontata) firma di Mattarella ogni scenario diventerà possibile. E questa convulsa fase politica non potrà essere archiviata senza strascichi. Le zuffe di queste settimane sono destinate a lasciare il segno. I dubbi leghisti sul reddito di cittadinanza, il veto all’ecotassa sulle auto nuove, come pure gli scontri intorno agli aiuti alle imprese e alle grandi opere, oppure sui tagli alle pensioni d’oro hanno fatto emergere due visioni del mondo così distanti fra loro che non c’è contratto in grado di ricondurle a sintesi.

Un rimpastino di governo per sostituire qualche ministro più pasticcione degli altri (Toninelli, Giulia Grillo e Bonisoli i principali indiziati, al di là del caso Tria) potrebbe non bastare. E, soprattutto, potrebbe non essere accettato come tale dal Capo dello Stato. Passi per l’avvicendamento di uno o due ministri che dovessero più o meno spontaneamente decidere di farsi da parte. Se però i movimenti in vista fossero più consistenti è difficile immaginare che Mattarella non pretenda l’apertura di una formale crisi di governo, magari velocissima.

Certo, quando si apre una crisi basta un nonnulla perché tutto si incarti e precipiti, magari verso il voto. Non è infatti una semplice questione di persone: questa maggioranza ha un disperato bisogno di una messa a punto programmatica, di una urgente revisione del contratto, se vuole continuare a governare. Chiudere gli occhi di fronte alle difficoltà significherebbe attendere il primo incidente clamoroso che, prima o poi, è destinato ad arrivare.

Salvini ha la pressione delle categorie produttive affinché stacchi la spina. E ad essa si va ad aggiungere la pioggia di appelli dei quasi ex alleati, Berlusconi e Meloni, ansiosi di strapparlo all’abbraccio di Di Maio. Nel complesso la sua posizione sembra comunque più solida di quella del leader grillino, sempre più alle prese con i mal di pancia dei suoi, espressi dal presidente della Camera Fico, con sullo sfondo l’ombra del ritorno di Alessandro Di Battista. Dopo Capodanno si preannunciano settimane convulse per capire quanto il governo Conte possa ancora durare.

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