C’è ormai un filo rosso che lega la situazione globale a quella europea e alla stessa, più anomala, situazione politica italiana. Viviamo in un’epoca di nostalgie nazionaliste, anche se di fatto la globalizzazione è un fattore da cui, ormai, è impossibile prescindere. I riferimenti sulla crescita e sul debito, sulla produzione e sulla produttività sembrano intrecciati e sono ormai scanditi sempre in graduatoria o in scala di nazionalità differenti.



Basti pensare alla fragile ed evanescente manovra di bilancio italiana, per comprendere, in un clima di grande confusione e di contrasti continui, di quanti punti di riferimento esteri o sovranazionali si è dovuto tenere conto. Complessivamente, si può affermare che si vive un periodo già previsto dal socialista francese Jean Jaurès a fine Ottocento, quando sosteneva che una internazionalizzazione controllata limita il pericolo dei nazionalismi, ma troppa internazionalizzazione improvvisata provoca rigurgiti anche pericolosi.



Gli ambienti finanziari americani, quelli che hanno spinto per una globalizzazione a senso unico, di queste considerazioni non hanno mai tenuto conto e i contraccolpi attuali sono principalmente il frutto del loro pressapochismo culturale, prima ancora che politico.

In questo momento si svolge un consueto e normale periodo storico di grandi contrasti. Dovrebbe essere la politica ad ammorbidire le grandi contraddizioni. Un canadese anomalo, John Kenneth Galbraith, economista e intellettuale un tempo giovane collaboratore di Franklin Delano Roosevelt (anche lui particolare rispetto alla media americana) spiegava che “la politica è la scelta tra il disastroso e lo spiacevole”.

Sentenza terribile nello scenario attuale, dove tutto si confonde e nessuno sembra avere idee chiare o almeno qualche idea. Ad esempio, si parla di una frenata economica mondiale e c’è chi spia i dati di previsione dei prossimi mesi per prefigurare una caduta della crescita e una nuova depressione. Ma, in perfetta controtendenza con questa tesi, la Fed americana ha alzato il tasso d’interesse, misura che dovrebbe escludere avvisaglie di una nuova crisi. Nello stesso tempo, nonostante il “buco nero” della Cina, dove è difficile comprendere esattamente quello che avviene o che si prefigura, continua il “grande gioco” del nuovo assetto geopolitico mondiale.

Questo è il grande sfondo che l’Europa guarda, quasi con impotenza e, a volte, con aggressiva rassegnazione. Qui c’è il sistema finanziario che mostra aspetti delicati, per usare un eufemismo, soprattutto per quanto riguarda le banche. Ma, ammettendo che non accada nulla, l’Unione Europea si avvicina alle elezioni per il rinnovo del suo Parlamento in un clima inquietante. Secondo i sondaggi più accreditati, ma anche per l’aria che si respira, l’attuale asse maggioritario tra popolari democratici e socialisti, dei 27 Paesi che aderiscono all’Unione, è diventato una chimera.

Tra i 700 eurodeputati da eleggere, dovrebbero essere appena 300 quelli che si rifanno all’attuale maggioranza. Ci sono cadute paurose: i socialdemocratici della Spd raggiungono a stento il 10% in Germania; si salvano i socialisti spagnoli nel loro Paese, che passano dal 30 al 25%; in Francia i socialisti non esistono più e l’eredità di Emmanuel Macron è un rebus indecifrabile. sia per quello che ha promesso, sia per quello che avviene, sia per il consenso che raccoglie, ormai ridotto a quello del Francois Hollande che rinuncia a ricandidarsi.

Non è facile un calcolo delle forze nazionaliste o sovraniste. Si parla di una base del 25%, ma c’è chi azzarda addirittura un 30%. In tutti i casi, la nuova maggioranza del Parlamento dell’Unione potrà al massimo essere formata dai cristiano-popolari indeboliti, dai socialisti in stato quasi comatoso e quindi supportata da diverse formazioni di stampo liberale e dai verdi di ogni tipo e tendenza.

Pensare a che tipo di Commissione possa essere formata, anche con un simile Parlamento che istituzionalmente non avrebbe peso, è un’incognita che, nel migliore dei casi, ridimensiona il ruolo dell’Unione Europea.

Lo scenario è diviso tra avventuristi sovranisti o nazionalisti da un lato e una sedicente élite tecnocratica dall’altro, nonostante le dichiarazioni altezzose degli Juncker, dei Moscovici e anche di Tajani.

Se il grande Joseph Schumpeter assistesse a un “duello dialettico” tra Di Maio e Juncker non avrebbe più dubbi sulla fine della democrazia rappresentativa e l’inevitabile, triste avvento di un socialismo autoritario.

Il ridimensionamento politico e culturale europeo si riversa, con toni più ridondanti, nell’Italia in divisa giallo-verde. Qui ci sono i battistrada del nuovo e ulteriore “tramonto dell’Occidente”. Ritenere che si uscirà finalmente dalla crisi economica e si riprenderà a crescere, contenendo almeno le odiose diseguaglianze e lasciandosi alle spalle la povertà, è un sogno da temerari, che non merita neppure il nome di utopia. Conoscere che tipo di politica economica farà l’Italia è un’incognita per qualsiasi economista serio e non legato al pensiero unico neoliberista. In più c’è il gioco politico complessivo che lascia perplessi, esterrefatti e non consente previsioni credibili.

Il Partito democratico, che dovrebbe essere la minoranza di opposizione più agguerrita, si appresta a un congresso concepito tra primarie con un numero imprecisato (con qualche ritiro ricorrente) di candidati. Il favorito è Nicola Zingaretti, ma la partita per raggiungere il 51% è ardua, nonostante i recuperi dei vecchi “bucanieri” come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Zingaretti, di fatto, propone un recupero della vecchia sinistra di partito e, genericamente, di popolo, a suo dire, individuandolo tra i dissidenti di sinistra dei Cinquestelle.

Operazione tutt’altro che semplice, perché tutto questo presuppone la vittoria non scontata di Zingaretti, il peso che esercita sempre l’indiavolato e furibondo Matteo Renzi nell’apparato e nelle retrovie del Pd. Se nelle primarie nessuno raggiungesse il 51% si ridiscuterebbe tutto in assemblea e, anche se uno avesse superato il 40%, potrebbe venire messo in discussione da veti incrociati. Anche in questo caso, visti i sondaggi, c’è il rischio di una “prematura scomparsa” del Pd e la sostituzione di un soggetto nuovo di alternativa di sinistra generica, tra “pentastellati dissidenti” e i resti di partiti che in alcune città, ai tempi della “vecchia politica” ora condannata, avevano dalle 80 alle 50 sezioni, quindi una struttura di riferimento importante se non decisiva nella politica italiana.

Ma è anche evidente che il congresso del Pd potrà procurare sorprese in diverse direzioni. L’insistenza di una visione ricercata, probabilmente anche promossa e forse concordata, di un’alleanza (l’ha citata con favore persino il sindaco di Milano Giuseppe Sala) con una parte dei Cinquestelle avrà una ripercussione immediata sul governo, che esaspererà i toni di divisione tra M5s e Lega fino a una rottura sinora sempre evitata. Chi ha fiutato meglio quest’aria è Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

In controtendenza a questa visione e a questo piano zingarettiano e di altri aderenti al Pd, c’è Matteo Renzi, con tutto il suo peso e la sua forza ereditata dalla sua segreteria trasmessa tra i deputati e gli eurodeputati. Che sorprese riserverà? Le fughe opportunistiche sono sempre di moda in Italia, ma i cortocircuiti delle scissioni improvvise sono altrettanto sempre all’ordine del giorno.

A quel punto (che non dovrebbe essere molto lontano) la Lega di Matteo Salvini dovrebbe diventare il playmaker della politica italiana, con uno strascico complesso con i resti di un centrodestra in difficoltà palese.

Se comunque si arrivasse a quel punto su cui giocano Zingaretti e i suoi, dato che in politica il vuoto non esiste, si può anche attendere una grande sorpresa, magari da una nuova forza che nasce e diventa emergente, che trascina al voto anche i plotoni sempre più numerosi degli astenuti.

In tutti i casi, in questo modo, a tutti i livelli, non esiste neppure la scelta della politica di Kenneth Galbraith “tra il disastro e lo spiacevole”. La paura è che ci sia un salto verso un’avventura pericolosa, senza controllo e soprattutto senza controllori. In quel momento ci sarebbe una sorta di filo rosso del caos e viene in mente l’ultimo discorso fatto da Vladimir Putin, che va venire i brividi alla schiena.