Come il diritto internazionale insegna, l’assenza di guerra non vuol dire pace, e nemmeno “cessate il fuoco”. A volte è, semplicemente, banalmente, assenza di guerra. Ecco, questo è accaduto fra Europa e Italia. Fatti due conti su entrambi i fronti ci si è convinti che far la guerra era troppo dispendioso e irto di incognite. Fissato un punto in cui si poteva chiudere la trattativa si è deciso di buttare la polvere sotto il tappeto e di interrompere le ostilità. I soldi che non si è saputo/voluto/potuto trovare quest’anno dovranno essere trovati con gli interessi nei prossimi tre anni, sotto forma o di manovre lacrime e sangue o di stratosferici aumenti dell’Iva. Tanto, hanno pensato sotto sotto i nostri governanti, da maggio l’Europa cambia musica, i partiti tradizionali saranno spazzati via, e allora: basta con le ingerenze di Bruxelles, via le sanzioni alla Russia, e ognuno di nuovo padrone a casa sua. Mentre a Bruxelles avranno pensato che, in fondo, non si sa quanto potrà durare questo governo. Insomma si è preso tempo, cercando una soluzione per salvare tutti, nei limiti del possibile, la faccia, dopo aver minacciato fuoco e fiamme.
Onestamente, però, tutto si può fare adesso tranne che accusare l’Europa per non essere riusciti nemmeno a presentare il maxi-emendamento in Commissione. l’Europa siamo noi, ha ricordato il presidente Mattarella nel fare gli auguri alle alte cariche, non si può procedere per mesi come se ne fossimo fuori, accorgersi della sua esistenza quando si era già in vista del filo di lana, e poi addebitare a Bruxelles i ritardi. La palma della battuta più efficace, al riguardo, tocca a Pier Ferdinando Casini, che ha ironizzato su Twitter: “Salvini e Di Maio stanno realizzando la riforma Renzi tardivamente: hanno abolito il Senato”. In ogni caso, è andata così, manovra riscritta a Bruxelles, Parlamento esautorato.
Intanto, due scuole di pensiero che si fronteggiano nel Palazzo. Una descrive la nascita di questo governo come un vero e proprio capolavoro di Mattarella e considera questa mezza tregua con l’Europa, ottenuta anche grazie alla moral suasion del Quirinale, come un secondo miracolo. L’altra scuola, al contrario, considera una iattura questo governo (non scaturito da un voto popolare, ma dalla successiva dialettica parlamentare) e tale considera il suo prosieguo, non si sa per quanto ancora.
Si naviga a vista intanto, vedo autorevoli colleghi pronti a scommettere che il governo dopo questa tregua (che è soprattutto una tregua tra le due forze politiche) sia destinato a cadere dopo le europee. A mio avviso Mattarella non poteva fare diversamente quando ha favorito la convergenza, l’unica possibile, fra le due forze politiche, e non può far altro ora se non sostenerne la navigazione.
Tuttavia capisco anche le preoccupazioni di chi ritiene la nascita di questa coalizione di governo un’operazione molto pericolosa. È come se le due forze politiche che compongono l’attuale maggioranza, mantenendo una differenza programmatica evidente, ai limiti dell’incompatibilità, stessero in piedi (al di là del famoso e un po’ fumoso contratto di governo) sulla condivisione di uno spirito comune, di una sorta di spirito animale, o se volete di un algoritmo in fondo, in base al quale il vero programma è costituito dall’accontentare ciascuno le pulsioni del proprio elettorato in una sorta di campagna elettorale continua. Diverse possono essere insomma le due piattaforme politico-sociali, ma simile, molto simile è l’approccio.
C’è stata una querelle che è stata rivelatrice di questo. Mi riferisco alla polemica che ha visto per protagonista il padre di Luigi Di Maio, prima per via di un condono edilizio di una certa consistenza nella casa di famiglia, poi per una storia di lavoro a nero e leggerezze varie nell’azienda di famiglia di cui poi lo stesso vicepremier è diventato contitolare. Sia chiaro, non scandalizza più di tanto il condono, né l’assunzione a nero di lavoratori, che sono purtroppo la triste normalità in certe aree, e poi c’è la regola aurea per cui non si possono trasferire ai padri le colpe dei figli e viceversa. Tuttavia bisogna mettersi d’accordo, tuo padre e la sua azienda di famiglia non possono essere un qualcosa da esibire a modello nel corso di un’assemblea di Confcommercio, come ha fatto Di Maio a maggio, salvo qualche mese dopo raccontare alla “Iene” (una volta scoperte le magagne) che con il padre non c’è una gran comunicativa e una soddisfacente condivisione ideale.
Ma, mi chiedo, se un politico mostra un rapporto con suo padre ondivago e strumentale, come può mantenerne uno di qualità migliore con un semplice elettore? Un figlio dovrebbe avere a cuore il destino dei suoi familiari prima di ogni altra cosa, e in proiezione più ampia un politico dovrebbe avere a cuore il destino di tutta la comunità che è chiamato a servire. Se invece non è il benessere individuale o collettivo in ballo, ma solo il consenso, cambia tutto. Un po’ come quel padre – sempre per restare nei parallelismi familiari – che per assecondare tutte le pulsioni di suo figlio lo accontenta in tutti i modi, anche se ad esempio i soldi che gli chiede sa che servono per assumere droga, o per andarli a buttare in un sala giochi.
A ben vedere il vero nodo della politica odierna – peccato da cui non è stata certo immune la fase renziana – è l’aver trasformato il mezzo per fare politica (la raccolta del consenso) nel suo fine. Mentre il fine dovrebbe essere un altro, il bene comune, il benessere di un popolo. Non si spiega diversamente la scelta di attestare allo 2.04 dal 2,4 che era, il rapporto deficit/Pil. Che cosa si poteva escogitare di meglio – per far finta di aver cambiato poco, pochissimo – che inserire uno zero, nulla praticamente? Se lo scopo è il consenso ogni stratagemma si spiega.
D’altronde nella trattativa con l’Europa ogni persona avveduta sapeva (ed è impensabile che chi guida il Paese non lo fosse) che non si poteva fare di testa propria. Solo che non era “figo” raccontarlo al proprio elettorato, bisognava tirare la corda, fare la voce grossa, dare dell’ubriacone al presidente della Commissione, far passare inutilmente due o tre mesi per far lievitare i consensi. E non fa niente che nel frattempo sono stati bruciati miliardi, miliardi che non si recupereranno facilmente. E miliardi significa migliaia di euro in testa ad ogni cittadino, giusto per ricordarlo, anche solo a limitarsi allo spread, per non dire dei corsi azionari scesi nel frattempo del 25 per cento. Significa che il valore delle nostre aziende, e dei risparmi in esse investite, è sceso di un quarto, in soli sei mesi.
Tuttavia il conto arriva all’incasso molto prima di quel che non ci si aspetti. Il sottosegretario alla presidenza, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha svolto un interessante intervento al Meeting scorso che in pochi hanno colto fino in fondo. Lo si è voluto leggere come una polemica con il Pd, e invece lui si rivolgeva sopratutto ai suoi e in particolare al suo leader Matteo Salvini. Quando diceva che – la parabola di Renzi lo insegna – senza produrre risultati la politica prima o poi declina, perché non può vivere solo di proclami o di provvedimenti propagandistici. E non penserete mica che il Paese si risollevi con il reddito di cittadinanza o cacciando fuori i migranti dai centri di accoglienza. Può anzi darsi che l’una e l’altra cosa, oltre a qualche consenso in più nell’immediato, possano produrre una serie di guai finora non calcolati a sufficienza. Nella gestione del tema migranti-sicurezza infatti, si è messo mano a una macchina che fin qui aveva tenuto il nostro Paese al riparo di grandi malesseri sociali e di episodi terroristici, per entrare in una terra incognita che non sappiamo che risultati porterà. Quanto al reddito di cittadinanza, nel combinato disposto con il salasso imposto agli enti non profit per il raddoppio della tassazione, è stata compiuta un’altra operazione molto discutibile, andando a penalizzare quella macchina complessa fatta di solidarietà e privato sociale – che ha fatto sì che la povertà non esplodesse grazie al ruolo di parrocchie, Caritas, associazioni e Banco Alimentare – per privilegiare una macchina tutta statalista che farà fatica a funzionare, visto come è messa la burocrazia in Italia. Ho l’impressione fra l’altro che, sia detto senza offesa, in base agli 88 euro che dichiara come reddito il padre del vicepremier pentastellato dovrebbe aver diritto (credo) a una robusta integrazione: e già solo questo dovrebbe farci riflettere su che macchina infernale suo figlio ha messo in campo.