La notizia della morte del padre di un alunno musulmano, in una scuola media della periferia “critica” di Milano, circola velocemente, tra gli insegnanti. Oltre al dolore, la famiglia a questo punto è sola e in crisi economica. I docenti chiamano i volontari dei Banchi di Solidarietà. Il tempo di individuare chi è disponibile e, in tre settimane, due persone “adottano” la famiglia. Periodicamente portano i beni alimentari necessari e cominciano a intessere un rapporto di cura e attenzione con la madre, rimasta sola. La donna lentamente si riprende, ricostruisce un percorso lavorativo e riesce infine a mandare i due figli alle scuole superiori.
Non sono in grado di monetizzare il valore di questa storia (anche perché il valore non ha sempre un prezzo) e delle infinite altre che, come molti, potrei raccontare, ma nel 2011 Cnel e Istat hanno stimato in 12 a 1 il ritorno medio dell’investimento in lavoro volontario. Accettiamo questa stima come espressione di un fatto ancora più reale: il non profit genera un valore enorme, perché è in grado di intercettare, incontrare, accompagnare e risolvere bisogni personali e sociali con una tempestività, una flessibilità e, spesso, un’efficacia che nessun processo burocratico può replicare.
I dati sull’indagine delle istituzioni non profit, pubblicati a ottobre dall’Istat, e disponibili sul sito dell’Istituto, parlano chiaro. Nel 2016, in Italia vi sono più di 340mila istituzioni senza fini di lucro che occupano più di 810mila persone e il settore è in continua crescita, sia in termini assoluti, che di peso, rispetto al settore profit. Il dato più impressionante è poi la diversificazione delle attività, che coprono uno spettro quasi infinito di bisogni ed esigenze, da quelle ricreative a quelle culturali ed educative, da quelle ambientali a quelle sanitarie e a quelle di supporto alla coesione sociale e di contrasto alla povertà. Il tutto, con il contributo di milioni di volontari e “toccando” le vite di milioni di fruitori e beneficiari.
È chiaro il punto? il terzo settore non è, oggi in Italia, un complemento marginale o un imbellettamento del welfare statale o della vita sociale degli italiani; il terzo settore è una componente strutturale della vita sociale ed economica del Paese ed è talmente interconnesso con le nostre esistenze che forse neanche ci rendiamo conto dell’imponenza di ciò in cui siamo immersi. E non si tratta semplicemente di registrare l’esistenza di un fenomeno che c’è, ma di riconoscere il ruolo intrinsecamente essenziale del non profit, e dei processi sussidiari in generale, all’interno di società complesse e dinamiche come le nostre. Società dove bisogni sempre nuovi, cioè non riconducibili al già noto, emergono e si manifestano continuamente, in tutti gli ambiti e dovunque nel territorio, richiedono la presenza di soggetti in grado di riconoscerne con tempestività l’esistenza, auto-organizzarsi e attuare processi adattativi di risposta, in cooperazione con l’istituzione pubblica. Complessità e novità (e il bisogno che emerge è sempre una novità) non possono essere affrontati da organi e processi burocratici e amministrativi che, per definizione, devono muoversi nel già definito e si esplicano in schemi meccanici e algoritmici. In questo senso, non profit e sussidiarietà non sono una necessità causata dalle imperfezioni dello Stato, ma una condizione strutturale perché una società inclusiva e orientata al bene comune possa fiorire e sostenersi nel tempo. Il non profit è infatti quella trama relazionale che rende unita e coesa la società. E in un Paese con più di 5 milioni di poveri assoluti (stime Istat per il 2017), non ci dovrebbe essere bisogno di aggiungere altro.
Per tutta risposta, in nome della “abolizione della povertà”, la finanziaria appena passata in Senato raddoppia l’Ires alle organizzazioni del terzo settore, rischiando di mandare in crisi i bilanci di tante realtà non profit. Nel giro di pochi giorni, il fondo del barile è stato raschiato e, in questo caso, in perfetta linea con l’impianto ideologico sostanzialmente statalista (e anche un po’ anticlericale) delle due forze di coalizione. 118 milioni di euro di tasse aggiuntive, che lo Stato allocherà in modo inefficiente, rinunciando (se prendiamo per buono il rapporto 12 a 1, di cui sopra) a più di un miliardo e 400milioni di “controvalore” generato dal non profit.
Chi paga? Tutti, ma innanzitutto i poveri e coloro che hanno bisogno, e poi la classe media, che magari manda i figli in una scuola non statale, o all’oratorio estivo o in qualche associazione sportiva senza fini di lucro e che dovrà pagare di più, o magari rinunciare a quei servizi. Ma come: il governo, soprattutto nella sua componente stellata, fa proprie le istanze racchiuse nel “Bes” (la misura di “Benessere equo e sostenibile” costruita dall’Istat, che dovrebbe guidare la politica “oltre il Pil”) e poi colpisce una delle leve fondamentali della sostenibilità sociale?
C’è da dire che questo non è il solo paradosso degli abolitori della povertà. Le modalità di azione del governo hanno prodotto un aumento dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico a tutto vantaggio degli appartenenti alla classe medio-alta, che possono investire, e a tutto svantaggio dei più deboli, che subiranno l’effetto della mancanza di risorse, diminuite per pagare interessi maggiori ai più facoltosi. In sostanza, un trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi. E i poveri saranno gli stessi che pagheranno i possibili aumenti dell’Iva. Chi spende quasi tutto per i beni di prima necessità, non può che rinunciare a quel po’ di risparmio che riusciva a fare, ampliando in questo modo le fila dei soggetti economicamente fragili e candidati a scivolare in povertà al primo shock negativo (per esempio, la perdita del lavoro). E questo non colpisce solo le classi deboli ma anche la classe media, che alla fine sarà chiamata a pagare, direttamente o indirettamente, per garantire i trasferimenti del reddito di cittadinanza e di quota 100. Mancate indicizzazioni delle pensioni medie, aumento dei costi dei servizi bancari, dilazioni delle assunzioni nel pubblico impiego, possibili o probabili aumenti di tasse comunali e lo spettro di 23 miliardi di clausole di salvaguardia, che sanno tanto di patrimoniale.
È chiaro che l’effetto netto di questa strategia è tutto, fuorché veramente redistributivo. Anzi, produce disuguaglianza, e della peggior specie, perché tende a polarizzare la società. Quando la classe media è forte, politiche redistributive che trasferiscano risorse dalla parte alta della distribuzione dei redditi a quella più bassa sono giuste, possibili e rafforzano la capacità di crescita di un Paese perché favoriscono l’inclusione sociale, fatta di aumento dei livelli educativi e partecipazione al mercato del lavoro. Ancora una volta oggi, invece, si drenano risorse dalla classe media, vista come bancomat delle politiche finto-redistributive, riducendola e spingendo verso una disarticolazione della società in “poveri” e “ricchi”. Questo indebolisce le strutture democratiche, perché fa venir meno le istanze di apertura e innovazione di chi ha una visione intergenerazionale e produttiva, nella direzione di una polarizzazione fra una classe di assistiti e una classe di facoltosi. E in modo ancora più perverso, blocca gli ascensori sociali, per la difficoltà delle classi deboli a investire sulle leve di crescita, come l’educazione e la casa, a sfavore delle generazioni successive, che non riescono ad agganciarsi a una classe media troppo assottigliata. E così, chi ha leve economiche, culturali e sociali potrà muoversi con relativa efficacia nella complessità frammentata delle dinamiche economiche, aumentando il distacco dagli altri, progressivamente costretti ai margini e in attesa di mance e concessioni, come quelle di Macron ai gilet gialli.
Punire il terzo settore significa accelerare questo processo di disarticolazione sociale, portando un attacco al cuore della società. E farlo nel modo in cui è stato fatto, improvviso e dirigista, è mettere ancora più in difficoltà le istituzioni non profit, che si ritrovano a dover ridefinire i propri bilanci e i propri piani operativi. Per non parlare del fatto che il provvedimento colpisce tutti indistintamente, tirando una riga diritta su un mondo complesso e diversificato, senza considerare le differenti finalità degli enti, e senza l’evidenza di alcuna analisi preliminare sulle conseguenze economiche e sociali di quanto deciso.
Nel frattempo, però, il maxi emendamento riduce le accise sulla birra. Fatto. Gli italiani si berranno anche questa?