Gli indizi di svolta, nella complessa transizione politica italiana avviata dal voto del 4 marzo, non mancano: tendono anzi a farsi più leggibili in direzione di un possibile chiarimento-superamento della “strana maggioranza” gialloverde. Come ha notato Stefano Folli, il forte “doppio passo” del presidente della Camera Roberto Fico — si al Global Compact Onu e no alla distensione con l’Egitto sul caso Regeni — ha posto le premesse per una ripartenza politica di M5s sul terreno potenziale della sinistra d’opposizione. E questo avviene proprio quando il test del movimento come forza di governo, incarnata da Luigi Di Maio, sembra aver esaurito ogni spinta, apparentemente senza aver raggiunto gli obiettivi.
Non si potrà mai accusare Di Maio di non essere riuscito a imporre in provvedimenti dell’esecutivo i mantra elettorali di M5s — il reddito di cittadinanza piuttosto che la frenata sul Jobs Act —, ma proprio questi “successi” hanno evidenziato la sostanziale incompatibilità dell’agenda grillina “senza se e senza ma” con la governabilità interna ed esterna dell’Italia 2018. Se sulla stessa Repubblica l’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari sembra muoversi sulla stessa rotta — lo sganciamento deciso dalla sinistra dal renzismo e la riconquista dell’elettorato grillino “tradito” dal Pd — un segnale solo in apparenza minore è il preannuncio della collaborazione di Massimo D’Alema alla Link University, pensatoio e fucina dirigenziale dei 5 Stelle. E tutto questo mentre nel Pd — a due anni della sconfitta referendaria — si fanno più forti le tensioni fra la paralizzante autocrazia di Matteo Renzi e le spinte scissioniste a sinistra.
L’establishment globalista-europeista — personificato dall’ex premier Mario Monti, ma anche dal premier-incaricato-per-un-giorno Carlo Cottarelli — sta intanto producendo il massimo sforzo di lobbying mediatica, in coincidenza con il crash fra il governo Di Maio-Salvini e la Commissione Ue sulla manovra di bilancio. Soprattutto l’ultima intervista di Monti al Corriere della Sera — una quasi-provocazione sulla Ue “non troppo severa” nella procedura d’infrazione decisa contro Roma — ha confermato la determinazione dei terminali italiani della tecnocrazia internazionale nello sfruttare “l’ultima trincea” della Commissione Juncker per tentare di “ristabilire l’ordine” in Italia, in via esemplare in Europa alla vigilia del voto di maggio, sulla falsariga della “lezione” impartita alla Grecia tre anni fa.
Da allora tuttavia, la leadership franco-tedesca nella Ue si è indebolita mentre i populismi anti-élite e anti-Ue si sono rafforzati ovunque (hanno spinto la Gran Bretagna fuori dalla Ue, vinto le elezioni in Italia, spinto l’assedio dei “giubbetti gialli” fin sui gradini dell’Eliseo in Francia). E in Italia si è consolidata l’opinione che nel 2011 Monti non sia stato il “salvatore” del suo Paese, ma l’agente del “partito dello spread”. Se la prospettiva di difficoltà per le aste di Btp a gennaio non è affatto teorica, l’ipotesi di caduta del governo Conte e di “restaurazione” da parte di un classico governo del Presidente è assai più incerta: tanto più che il naturale candidato premier — il presidente della Bce, Mario Draghi — difficilmente sarebbe disponibile, almeno in tempi ravvicinati.
Più interessante in chiave di possibile nuovi “format” di governo, appare il rilievo politico che alcuni osservatori hanno iniziato a riservare alla candidatura Milano-Cortina per le Olimpiadi invernali 2026. Guardato da vicino il caso sembra racchiudere — forse non solo in nuce — tutti o quasi i momenti dell’attualità politica italiana.
Il progetto nasce originariamente “a tre punte” con a bordo anche Torino: ma la città governata da M5s si autoesclude in nome del viscerale antagonismo grillino per “grandi opere/grandi eventi”. La Regione Piemonte, pilotata dall’attempato leader Pci Sergio Chiamparino, prova a far leva sull’onda lunga di Torino 2006 per tenersi agganciata alla nuova iniziativa olimpica, ma il tentativo fallisce per la debolezza usurata del vecchio centrosinistra torinese, per di più sotto elezioni regionali.
La plateale defezione torinese — figlia di un antagonismo ideologico — sembra azzoppare l’intero progetto, che tuttavia va avanti. Protagonisti ne sono due partner “strani” solo fino a un certo punto. Il sindaco di Milano Beppe Sala è il tecnocrate dell’Expo: è stato eletto da una maggioranza di centrosinistra, ma è sostanzialmente estraneo e disinteressato all’interminabile resa dei conti in corso nel Pd. Il presidente della Regione Veneto Luigi Zaia è invece un notabile leghista leale con il leader Salvini, ma è anche esponente della precedente tradizione governativa della Lega bossiana, pilastro del centrodestra berlusconiano. Ancora: “Milano-Cortina 2026” nasce senza alcun endorsement ufficiale da parte del Governo italiano e con il Coni nel ruolo laterale e affannato di presentatore (il presidente-ras Giovanni Malagò, esponente dell’élite para-pubblica romana, è in aperta rottura con il sottosegretario alla Presidenza Giancarlo Giorgetti). Non da ultimo: in una fase di apparente isolamento europeo e internazionale e di oggettiva debolezza economico-finanziaria del Paese, la candidatura italiana sembra uscita rafforzata dal road-show olimpico di Tokyo. “Se lo Stato non ci darà un euro, faremo lo stesso”, ha detto Zaia: ed è sembrato di sentire l’eco dei crescenti scontenti dei ceti imprenditoriali del Lombardo-Veneto. E un vasto mondo che — a leggere gli ultimi sondaggi — dopo cinque mesi boccia già senza appello il governo gialloverde, ma allo stesso tempo mantiene intatta o quasi una forte fiducia prospettica nelle capacità di governo della Lega.
Può darsi che l’aggiustamento in corsa della manovra consenta ora al governo Conte di abbassare le tensioni sia verso la Commissione Ue (comunque uscente e premuta adesso anche dal populismo francese), sia verso l’elettorato del Nord, già sceso in piazza a Torino pro-Tav e desideroso di farlo ancora per spingere correzioni effettive ai conti. Può darsi, in concreto, che ridimensionare il reddito di cittadinanza a beneficio di un ritorno in budget di “Industria-Formazione 4.0” e di investimenti in infrastrutture, tolga alla legge di stabilità quell’assistenzialismo in deficit che urta all’unisono l’Ue, i mercati e il Nord. Può darsi quindi che — come probabilmente si augurano entrambi i vicepremier ma anche i leader di opposizione — l’esecutivo possa durare fino alla scadenza elettorale di maggio: evitando salti nel buio per tutti. Però equilibri politici alternativi — o meglio: successivi — cominciano a prendere forma.