Quando il gioco si fa duro, dicevano i Blues Brothers, i duri cominciano a giocare. E così la guida della trattativa con l’Unione Europea sulla manovra è passata dal ministro dell’Economia al presidente del Consiglio. Con un bel comunicato, i due vicepremier Di Maio e Salvini si sono fatti da parte consegnando a Conte il mandato di negoziare. Non è un bel segnale. Significa che il tira e molla tra Roma e Bruxelles non è più una questione tecnica, di “numerini” e decimali, ma è diventata una faccenda tutta politica, un confronto che non avendo trovato un accordo sulla misura del deficit e dell’assistenzialismo deve trovare una composizione a un livello più elevato.
Il governo si è infilato in un vicolo cieco: era andato al confronto con l’Ue come al suk di Marrakesh. Quando il commissario Moscovici ci ha paragonato ai venditori di tappeti, è stato irriguardoso ma non ha sbagliato di molto: i nostri si sono presentati al tavolo della trattativa convinti che, per avere 5 da una controparte che non vuole concedere nulla oltre l’1, bisogna chiedere 10 e poi abbassare. Invece avevano di fronte un antagonista che non ha mollato. E ora il “partito dei numerini” che aveva spedito il povero Tria a contrattare ha le armi spuntate. Non è rimasto che incaricare Conte della mediazione. Ma tutte le incognite sono ancora sul tappeto.
Ci sono tuttavia altre due difficoltà che riguardano in particolare Salvini, principale protagonista dello scontro con Bruxelles. Una è la questione settentrionale, liquidata ieri dal ministro dell’Interno con uno sprezzante “lasciateci lavorare” di berlusconiana memoria: sei al governo, i sondaggi dicono che viaggi verso il 40 per cento dei consensi, chi ti impedisce di lavorare? Il problema è che l’arroganza nasconde l’incapacità di dare risposte vere all’elettorato del Nord che ha affidato un ampio mandato fiduciario alla Lega e ora si domanda che uso ne stia facendo Salvini.
Il Nord che vota oggi la Lega non è più quello che sosteneva (in misura molto inferiore) il Carroccio di Bossi. Quello era un voto identitario, legato all’antagonismo tra Settentrione, che sognava autonomia e federalismo, e Mezzogiorno. Oggi il voto leghista è molto più trasversale e ampio, ed è fondato su dati di fatto: la Lega guida Lombardia e Veneto e lo fa bene. I lombardo-veneti, ma anche liguri, piemontesi ed emiliani, voterebbero ancora Salvini sia per la mancanza di alternative, sia soprattutto perché ha dimostrato di saper amministrare le regioni più produttive ed “europee” d’Italia, al contrario delle sindache grilline di Roma e Torino. Al tempo stesso, però, il Nord si chiede dove siano finiti la flat tax, l’autonomia votata con il referendum, il sostegno all’occupazione e all’innovazione produttiva: tutte sacrosante bandiere leghiste sacrificate sull’altare dell’assistenzialismo imposto dai 5 Stelle. E sbaglia Salvini ad accusare gli imprenditori di essere stati zitti negli ultimi anni: non solo non è vero, ma forse il ministro si è dimenticato che il leader confindustriale Boccia in primavera aveva steso tappeti rossi al governo gialloverde in gestazione.
Terzo scoglio per il titolare del Viminale è il decreto sicurezza, che Salvini ha imposto con tutte le sue forze mentre mostra fin da subito crepe preoccupanti, come l’aver trasformato gli ospiti dei Cara in altrettanti irregolari che andranno espulsi ma per il momento, nella stagione fredda, andranno a rifugiarsi sotto i portici o nelle vituperate strutture caritative di accoglienza. Si profila una clamorosa eterogenesi dei fini per il provvedimento che doveva garantire tranquillità e sicurezza. E non basterà una manifestazione di piazza come quella di sabato per raddrizzarlo.
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