Due debolezze non fanno mai una forza. Matteo Salvini e Luigi Di Maio appaiono oggi due leaders in difficoltà. E per il governo questo è indice di una debolezza estrema, che potrebbe portare a breve termine persino in un imprevedibile scenario di crisi.

Le difficoltà di Di Maio appaiono evidenti: a una scarsezza di risultati sul piano politico è andato a sommarsi il caso del padre. Le irregolarità nel trattamento dei dipendenti, i presunti abusi edilizi sono un colpo ferale alla credibilità del leader di un movimento cresciuto a dismisura con la promessa di moralizzare la vita pubblica. Parlare di immagine appannata è il minimo, e il consenso — i sondaggi sono impietosi — non può che risentirne. Cresce fra i grillini la fronda di quanti molti provvedimenti di forte impronta leghista proprio non riescono a digerirli, come si è visto sul decreto sicurezza. In lontananza si intravede l’ombra lunga di Alessandro Di Battista, considerato l’unico leader di ricambio, che per ora continua a fare il turista in Sudamerica. Ma il momento difficile del Movimento è certificato da Beppe Grillo in persona, che sul suo blog ammette che “non sappiamo dove andiamo, cosa stiamo facendo e cosa stiamo pensando”.



Meno evidenti, ma non meno rilevanti i problemi con cui sta facendo i conti Salvini. Sembra stretto fra due fuochi, il leader della Lega. Da una parte i 5 Stelle, No Tav, No Tap, no tutto. Dall’altra i ceti produttivi, soprattutto quelli del Nord, suo tradizionale elettorato di riferimento, che gli chiedono di dare un taglio al più presto a questa politica di opposizione preconcetta alle opere pubbliche, e a spese giudicate improduttive come il reddito di cittadinanza.



Salvini ha dimostrato di esserne consapevole, quando ha scritto una lettera pubblicata da una ventina di quotidiani locali delle regioni settentrionali. Un testo non casualmente adattato alle singole realtà locali. Sino ad ora però il leader leghista si è detto intenzionato a tener fede per tutta la legislatura al contratto di governo sottoscritto con i 5 Stelle, ma non è detto che sia davvero così.

In questo clima di doppia debolezza il governo si sta trovando nella necessità di non ignorare i richiami venuti dall’Unione Europea sulla manovra. Una trattativa serrata è in corso, e potrebbe chiudersi con la limatura del rapporto deficit/Pil, dal 2,4% previsto a un 2 più digeribile per la Ue. Ma la delicatezza del passaggio si vede nella decisione di affidare il negoziato esclusivamente al premier Conte, commissariando di fatto il titolare dell’Economia, Tria. Su di lui ancora una volta circola l’ipotesi delle dimissioni, che però appaiono assai improbabili, almeno sino all’approvazione della manovra, che — sembra sempre più probabile — slitterà ai giorni compresi fra Natale e Capodanno.



Anche la moral suasion di Mattarella, che ha visto tutti i protagonisti, e continua a mantenere discreti contatti, contribuirà a evitare rotture clamorose prima di fine anno. Dopo, però, tutto è possibile. Tanto per la Lega, quanto per il Movimento 5 Stelle l’orizzonte è costituito dalle elezioni europee del 26 maggio, dove si verificheranno i rapporti di forza. Ma sarà davvero così? Lecito dubitarne. Per Salvini, che continua ad avere il vento in poppa nei sondaggi nonostante le difficoltà, potrebbe trattarsi di una vittoria di Pirro, di un risultato clamoroso ma inutile, più o meno come il 41% che Renzi incassò nel 2014. Decisivo è il fattore tempo: sarebbe quasi impossibile per il leader della Lega decidere di passare all’incasso, rompendo l’alleanza di governo dopo le europee: in Italia d’estate non si vota, e in autunno c’è la legge di bilancio da fare. Se attendesse il 26 maggio Salvini rischierebbe di sentirsi dire da Mattarella che la prima finestra utile per le urne è nella primavera del 2020. Decisamente troppo lontano, troppe cose possono cambiare.

Ecco perché una decisione politica dev’essere presa prima delle europee. Approvata la legge di bilancio ogni momento è buono. Per ora le carte del ministro dell’Interno restano coperte, a meno che non cominci a rivelare qualcosa delle sue intenzioni sabato mattina, davanti al suo popolo, convocato a Roma per la prima uscita ufficiale di una Lega diventata ormai partito nazionale.